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Tagliavini C., Nuovi contributi alla conoscenza del dialetto del Comelico, rist. anast.
Dell’edizione del 1942-44, Comunità montana del Comelico e Sappada, 1988.
Tagliavini C., Il dialetto del Livinallongo. Saggio lessicale, Bolzano, Istituto di studi per l’Alto
Adige, 1934.
Tekavčić P., Grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 1972 [il fuoco della
trattazione è la lingua letteraria, ma non mancano indicazioni relative a fatti
dialettali, interpretati in base al metodo strutturalista].
Tenzone dialettale = M. Corti, Una tenzone poetica del secolo XIV in veneziano, padovano e
trevisano, in V. Branca, G. Padoan (a cura di), Dante e la cultura veneta, Firenze,
Olschki, 1966, pp. 129-142; Brugnolo F., La tenzone tridialettale del Canzoniere
Colombino di Nicolòde' Rossi. Appunti di lettura, in Quaderni veneti, 3 (1986), pp. 41-84
[tre sonetti che evocano una tenzone, quasi certamente fittizia, fra poeti, ognuno
dei quali caratterizza, con una alta concentrazione di caratteri tipici, una varietà
veneta (padovano, trevigiano e veneziano)].
Tomasi G., Dizionario del dialetto di Revine, Belluno, Istituto bellunese di ricerche sociali e
culturali, 1992 (Il ed. ampliata di: Dizionario del dialetto bellunese arcaico, 1983).
Tommasoni P., Per una storia dell’antico trevisano, in Studi di grammatica italiana 3 (1973), pp.
155-206.
Trumper J., Il gruppo dialettale padovano-polesano. La sua unità, le sue ramificazioni, Padova,
Rebellato, 1972.
Trumper J., Vigolo M.T., Il Veneto Centrale. Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia,
Padova, Centro di Studio per la Dialettologia Italiana del CNR, 1995.
Tuttle E.F., Un mutamento linguistico e il suo inverso: l’apocope nell’Alto Veneto, in Rivista
Italiana di Dialettologia 5 (1981-82), pp. 15-35.
Tuttle E.F., Snaturalité e la s- iniziale pavana: considerazione storica e stlistica, in Studi
Mediolatini e Volgari 28 (1981), pp. 103-118.
Tuttle E.F., Le interdentali venete nella storia delle sibilanti romanze occidentali, in Guida ai dialetti
veneti VII (1985), pp. 7-43.
Ursini F., Ricerche sul dialetto. Schede per la raccolta e la elaborazione dei dati, in Partecipazione e
ricerca nella cultura locale, Padova, L’Albero, La Memoria, 1980, pp. 169-177.
Ursini F., Per uno studio del dialetto come lingua orale. Problemi di metodo, in Il dialetto dall’oralità
alla scrittura. Atti del XIII Convegno per gli Studi Dialettali italiani, Pisa, Pacini,
1984, pp. 65-73.
Ursini F., Sedimentazioni culturali sulle coste orientali dell’Adriatico: il lessico veneto-dalmata del
Novecento, in Atti e memorie della Società Dalmata di Storia Patria 15 (1987), pp. 20-
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Ursini F.; Varietà venete in Friuli-Venezia Giulia, in G. Holtus, M. Metzeltin, C. Schmitt
(edd.), Lexikon der Romanistischen Linguistik, voI. 4, Tübingen, Niemeyer, 1988,
pp. 538-550.
Ursini F., Il veneziano oltremare, in Arti e mestieri tradizionali, a cura di M. Cortelazzo,
Cinisello Balsamo (MI), Pizzi, 1989, pp. 210-233.
Ursini F., Lessico dialettale tra regolarità alternative, in Fra dialetto e lingua nazionale. Atti del
XVIII Convegno di Studi Dialettali Italiani, Padova, Unipress, 1991, pp. 313-
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Ursini F., Figure sociali nel mondo popolare, in Cultura popolare del Veneto. Le relazioni sociali, a
cura di M. Cortelazzo, Cinisello Balsamo (MI), Pizzi, 1992, pp. 9-23.
Venturi A.G., Saggio di un dizionario veronese italiano, Verona, Moroni, 1800.
Vigolo M.T., Ricerche lessicali sul dialetto dell’Alto Vicentino, Tübingen, Niemeyer, 1992.
Villabruna = G.B. Pellegrini, La ‘lingua rustega feltrina’ in Vittore Villabruna (sec.xVIII), in
Medioevo e rinascimento veneto con altri studi in onore di L. Lazzarini, Padova,
Antenore, 1979, vol. II, pp. 307-325.
Vulpe M., Syntaxe du dialecte et syntaxe de la langue parlée, in La Ricerca Dialettale m,. Pisa,
Pacini, 1981, pp. 35-48.
Zamboni A., Veneto, Pisa, Pacini, 1974.
Zamboni A., Gli anglicismi nei dialetti italiani, in Elementi stranieri nei dialetti italiani. Atti del
XIV Convegno del Centro di Studio per la Dialettologia Italiana, Pisa, Pacini,
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Zanette E., Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, Treviso, Longo e Zoppelli, 1955 (2a
ed: Vittorio Veneto, De Bastiani, 1980).
Zanzotto A., Allucinazioni dialettali, in Veneto. Connessioni Culturali, a cura di G. Marcato,
Padova, L'Albero, La Memoria, 1983, pp. 13-14.
Zanzotto A., Filò, Venezia, ed. Ruzante, 1976.
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Venezia, Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia,
1967.
Zolli P., La «Raccolta de’ proverbii, detti sentenze, parole e frasi veneziane» di F.Z Muazzo, in
Studi veneziani II (1969), pp. 537-582.
Zolli P., L’influsso francese sul veneziano del XVIII secolo, Venezia, Istituto veneto di
Scienze, Lettere ed Arti, 1971.
Zolli P., Riflessi linguistici della dominazione austriaca a Venezia, in Scritti linguistici in onore di
G.B. Pellegrini, risa, Pacini, 1983, pp. 209-226.
Zolli P., Le parole straniere (2a ed. a cura di F. Ursini), Bologna, 1991.
(A cura del Consiglio della Regione Veneto)
martedì 17 novembre 2009
lunedì 12 ottobre 2009
a Ivan Crico il premio nazionale di poesia Biagio Marin
Da "Il Piccolo" 11.10.2009
Sabato 17 ottobre saranno consegnati i riconoscimenti ai vincitori del “Premio nazionale Biagio Marin” edizione 2009, da quasi vent'anni il maggior premio dedicato alla poesia nei dialetti e nelle lingue minoritarie in Italia, nato per ricordare l'opera e la figura del grande poeta gradese.
A testimonianza della riconosciuta serietà del premio, la giuria ha la facoltà di premiare difatti, oltre ai libri presentati, qualsiasi altro volume in dialetto o saggio edito in Italia negli ultimi due anni. Nel tempo la commissione giudicatrice è stata composta, fin dagli inizi, dai maggiori studiosi e poeti italiani, dal compianto Carlo Bo a Franco Brevini, da Pietro Gibellini a Franco Loi, da Edda Serra a Giovanni Tesio. Tra i vincitori delle scorse edizioni inoltre troviamo alcuni tra i più significativi poeti in dialetto e studiosi del Novecento: basti qui ricordare soltanto i nomi di Paolo Bertolani, Enesto Calzavara, Amedeo Giacomini, Franca Grisoni e, per la sezione dedicata alla saggistica, Dante Isella, Cesare Segre, Alfredo Stussi.
Quattro sono le persone che riceveranno il prestigioso riconoscimento. All’unanimità la giuria ha deliberato di assegnare il premio Marin di 5000 euro ex aequo al poeta bisiaco Ivan Crico, per la raccolta “De arzent zu-D’argento scomparso”, edito dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione e al brianzolo Piero Marelli per la silloge “I nocc-Le notti” edita da Lieto Colle. Ne dà notizia la presidente del Centro Studi Biagio Marin, Edda Serra. La giuria del Premio per la poesia in dialetto edita formata da Franco Loi, Giovanni Tesio, Pietro Gibellini, Gianni Oliva, Edda Serra e Flavia Moimas, si è riunita a Brescia e ha stabilito altresì di assegnare altri due premi. Quello riservato alla personalità che nel corso della sua attività ha onorato la poesia in dialetto e contribuito alla sua conoscenza, sempre con giudizio unanime, è stato assegnato a Lucio Felici, al quale va il premio del Comune di Grado di 2500 euro. Felici è noto per i suoi studi su autori in romanesco dal ‘300 a oggi e sui poeti di marca Trevigiana, in particolare Calzavara e Zanzotto. Infine, sempre all’unanimità, per la saggistica su Biagio Marin e il suo mondo il premio sarà assegnato a Caterina Conti per la tesi di laurea “I diari e le lettere di Falco Marin: slanci idealistici ed esperienza militare” discussa all’Università di Trieste.
La cerimonia di consegna si terrà a Grado (GO) il 17 ottobre alle 17.30 nella sal consiliare del municipio.
martedì 7 luglio 2009
I cinquanta fratelli di Marin un poeta fra mare e vento
da: Messaggero Veneto — 05 luglio 2009 pagina 09
sezione: CULTURA - SPETTACOLO
di PAOLO MEDEOSSI In principio c’era un uomo che, stanco della solitudine, sognava di far uscire dal loro silenzio gli abitanti dell’isola dov’era stato bambino. Quell’uomo, un poeta, provò a bussare a tutte le case dell’antico borgo, piccolo nido protetto da quel nido più grande che era l’isola. Inutilmente. Nel silenzio delle calli e dei campielli si sentiva solo l’eco del suo bussare. Allora capì che era arrivata l’ora di lasciare l’isola e i suoi anni bambini e di avviarsi con coraggio verso strade sconosciute, se voleva spezzare il cerchio che lo teneva prigioniero di quel suo mondo di sassi. Quell’uomo era Biagio Marin che in una fiaba lirica autobiografica ( Stanco de solitae/ l’omo a batuo a la porta... ) narrò la condizione del poeta nella Grado di inizio Novecento mentre appunto cercava chi gli aprisse per ascoltare i versi scritti nel dialetto parlato da una minuscola comunità di pescatori in un’isola sperduta fra mare e laguna, poco conosciuta nel 1912 quando cominciava la grande avventura della poesia mariniana. Insomma, doveva proprio partire per andare a scoprire i suoi veri fratelli. Un’avventura diventata a poco a poco, nel tempo, nei 94 anni di vita di Biaseto (morto nel 1985) e anche dopo, assolutamente straordinaria tanto che le sue liriche e le sue parole si sono posate, come le foglie di un albero, dovunque negli angoli più impensati di città, paesi, contrade sconosciute. A proporre queste intuizioni e queste immagini splendide legate a Marin, a ciò che ha scritto e ci ha lasciato, è adesso Anna De Simone che ha curato il volume Cinquanta poesie per Biagio Marin , pubblicato per i Quaderni del Centro studi dedicato al poeta gradese, in una collana diretta da Edda Serra. È stato presentato nei giorni scorsi, esattamente il 29 giugno, anniversario della nascita di Biagio che così è stato festeggiato con una intensità naturale e sorprendente. All’origine del libro c’è proprio l’idea di completare quello che era nella mente del poeta che aveva voluto sfidare la solitudine, un destino, un mondo per far largo alle sue fragili, potentissime e magiche parole, che restarono sempre simili a quelle pronunciate dai bambini. «Altri poeti – scrive Anna De Simone -, seguendo anche inconsapevolmente le orme di Marin in quel loro silenzioso obbedire a una musa vestita di stracci, hanno raccontato, ciascuno nel proprio dialetto, la vita, il mondo, se stessi. Io credo che i cinquanta autori delle cinquanta liriche proposte in questa piccola antologia siano proprio i fratelli tanto a lungo cercati da Marin. Fratelli più giovani, provenienti da luoghi diversi, i cui testi in molti casi si spingono fino alle spiagge del terzo millennio». Si tratta, come spiega Edda Serra, di cinquanta voci che fanno coro per onorare Marin, voci di risposta oggi al suo canto e dialogo, ciascuno nella propria diversità, eppure coro compatto di voci scelte, a rappresentare cinquanta dialetti, cinquanta linguaggi poetici, cinquanta paesaggi, cinquanta piccole patrie, che sorprendono però nella loro unità. Un’unità fatta di fedeltà al poetare, di scelta coraggiosa, di cura amorosa e tenace della propria opera e del suo destino, che supera ogni narcisismo. Fra i cinquanta fratelli (e di ognuno è stata scelta una lirica), che rappresentano un po’ tutta l’Italia, tanti sono naturalmente i friulani, i bisiachi, i triestini, come Elio Bartolini, Luigi Bressan, Pierluigi Cappello, Ivan Crico, Nelvia Di Monte, Amedeo Giacomini, Claudio Grisancich, Federico Tavan, Umberto Valentinis, Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Leonardo Zanier. Su ognuno di essi il libro propone un accurato apparato di note per cui l’antologia diventa alla fine uno sguardo appassionato e affidabile sulla condizione della poesia dialettale in Italia (narrata regione per regione) che, anche se pochi lo sanno al di là degli addetti ai lavori, sta vivendo un momento di particolare vivacità, in contrasto con l’apparente declino della poesia in genere. Anna De Simone, di origini siciliane, risiede a Milano e da sempre segue con grande attenzione i nostri autori avendo dedicato studi e saggi in particolare, oltre che a Marin, a Virgilio Giotti, a Cappello, Tavan e Vallerugo. Nel testo che apre questo suo nuovo libro, dopo aver ricordato lo straordinario impegno come poeta e scopritore di talenti di Amedeo Giacomini, che creò con la rivista Diverse lingue un punto di riferimento fondamentale per tutto il movimento di questi decenni, mette in luce in termini limpidissimi e definitivi un aspetto notevole, scrivendo: «Quello della poesia in Friuli nel secondo Novecento è un fenomeno che non ha precedenti e reclama un discorso a sé: questa terra ci ha dato infatti, nell’ultimo scorcio del XX secolo, assieme alla Romagna, il maggior numero di poeti di alto livello. Molti se ne sono accorti, pochi se ne sono occupati in maniera approfondita... I dialetti stanno morendo – su questo sono tutti d’accordo – ma la lingua friulana, nella molteplicità e ricchezza delle sue varianti, non aveva mai conosciuto in passato esiti tanto diversificati e originali, grazie ad autori che si sono collocati con decisione, consapevolezza e senso d’arte fuori dalle secche municipalistiche di troppa poesia dialettale, prima di Pasolini, per intenderci, e hanno raccontato con originalità, senza mai cadere nella maniera, la vita... Così i fili della poesia si sono diramati in tutte le direzioni lungo una terra il cui nome evoca un passato molto antico, e hanno creato un arazzo che più vario e ricco non potrebbe essere». «Io sono un golfo», disse un giorno Marin agli amici. E l’antologia che gli è stata dedicata assomiglia proprio a un golfo dove si intrecciano sguardi, talenti, lampi, parole perdute e ritrovate, le “parole di legno” evocate da Ernesto Calzavara. Questa musicalissima teoria di voci, lingue e suoni è aperta da una breve lirica scritta da Novella Cantarutti, un inno bellissimo in friulano per Marin, poeta fatto di mare e vento, mâr e buera , «fermo sull’onda dell’eternità». In conclusione del viaggio ci sono alcuni versi di Biaseto, quelli dove dice che nulla è passato e tutto vive ed è presente. Ninte no’ xe passào / e duto vive e xe presente / un sielo solo levante e ponente / un solo sol m’ha iluminào.
sezione: CULTURA - SPETTACOLO
di PAOLO MEDEOSSI In principio c’era un uomo che, stanco della solitudine, sognava di far uscire dal loro silenzio gli abitanti dell’isola dov’era stato bambino. Quell’uomo, un poeta, provò a bussare a tutte le case dell’antico borgo, piccolo nido protetto da quel nido più grande che era l’isola. Inutilmente. Nel silenzio delle calli e dei campielli si sentiva solo l’eco del suo bussare. Allora capì che era arrivata l’ora di lasciare l’isola e i suoi anni bambini e di avviarsi con coraggio verso strade sconosciute, se voleva spezzare il cerchio che lo teneva prigioniero di quel suo mondo di sassi. Quell’uomo era Biagio Marin che in una fiaba lirica autobiografica ( Stanco de solitae/ l’omo a batuo a la porta... ) narrò la condizione del poeta nella Grado di inizio Novecento mentre appunto cercava chi gli aprisse per ascoltare i versi scritti nel dialetto parlato da una minuscola comunità di pescatori in un’isola sperduta fra mare e laguna, poco conosciuta nel 1912 quando cominciava la grande avventura della poesia mariniana. Insomma, doveva proprio partire per andare a scoprire i suoi veri fratelli. Un’avventura diventata a poco a poco, nel tempo, nei 94 anni di vita di Biaseto (morto nel 1985) e anche dopo, assolutamente straordinaria tanto che le sue liriche e le sue parole si sono posate, come le foglie di un albero, dovunque negli angoli più impensati di città, paesi, contrade sconosciute. A proporre queste intuizioni e queste immagini splendide legate a Marin, a ciò che ha scritto e ci ha lasciato, è adesso Anna De Simone che ha curato il volume Cinquanta poesie per Biagio Marin , pubblicato per i Quaderni del Centro studi dedicato al poeta gradese, in una collana diretta da Edda Serra. È stato presentato nei giorni scorsi, esattamente il 29 giugno, anniversario della nascita di Biagio che così è stato festeggiato con una intensità naturale e sorprendente. All’origine del libro c’è proprio l’idea di completare quello che era nella mente del poeta che aveva voluto sfidare la solitudine, un destino, un mondo per far largo alle sue fragili, potentissime e magiche parole, che restarono sempre simili a quelle pronunciate dai bambini. «Altri poeti – scrive Anna De Simone -, seguendo anche inconsapevolmente le orme di Marin in quel loro silenzioso obbedire a una musa vestita di stracci, hanno raccontato, ciascuno nel proprio dialetto, la vita, il mondo, se stessi. Io credo che i cinquanta autori delle cinquanta liriche proposte in questa piccola antologia siano proprio i fratelli tanto a lungo cercati da Marin. Fratelli più giovani, provenienti da luoghi diversi, i cui testi in molti casi si spingono fino alle spiagge del terzo millennio». Si tratta, come spiega Edda Serra, di cinquanta voci che fanno coro per onorare Marin, voci di risposta oggi al suo canto e dialogo, ciascuno nella propria diversità, eppure coro compatto di voci scelte, a rappresentare cinquanta dialetti, cinquanta linguaggi poetici, cinquanta paesaggi, cinquanta piccole patrie, che sorprendono però nella loro unità. Un’unità fatta di fedeltà al poetare, di scelta coraggiosa, di cura amorosa e tenace della propria opera e del suo destino, che supera ogni narcisismo. Fra i cinquanta fratelli (e di ognuno è stata scelta una lirica), che rappresentano un po’ tutta l’Italia, tanti sono naturalmente i friulani, i bisiachi, i triestini, come Elio Bartolini, Luigi Bressan, Pierluigi Cappello, Ivan Crico, Nelvia Di Monte, Amedeo Giacomini, Claudio Grisancich, Federico Tavan, Umberto Valentinis, Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Leonardo Zanier. Su ognuno di essi il libro propone un accurato apparato di note per cui l’antologia diventa alla fine uno sguardo appassionato e affidabile sulla condizione della poesia dialettale in Italia (narrata regione per regione) che, anche se pochi lo sanno al di là degli addetti ai lavori, sta vivendo un momento di particolare vivacità, in contrasto con l’apparente declino della poesia in genere. Anna De Simone, di origini siciliane, risiede a Milano e da sempre segue con grande attenzione i nostri autori avendo dedicato studi e saggi in particolare, oltre che a Marin, a Virgilio Giotti, a Cappello, Tavan e Vallerugo. Nel testo che apre questo suo nuovo libro, dopo aver ricordato lo straordinario impegno come poeta e scopritore di talenti di Amedeo Giacomini, che creò con la rivista Diverse lingue un punto di riferimento fondamentale per tutto il movimento di questi decenni, mette in luce in termini limpidissimi e definitivi un aspetto notevole, scrivendo: «Quello della poesia in Friuli nel secondo Novecento è un fenomeno che non ha precedenti e reclama un discorso a sé: questa terra ci ha dato infatti, nell’ultimo scorcio del XX secolo, assieme alla Romagna, il maggior numero di poeti di alto livello. Molti se ne sono accorti, pochi se ne sono occupati in maniera approfondita... I dialetti stanno morendo – su questo sono tutti d’accordo – ma la lingua friulana, nella molteplicità e ricchezza delle sue varianti, non aveva mai conosciuto in passato esiti tanto diversificati e originali, grazie ad autori che si sono collocati con decisione, consapevolezza e senso d’arte fuori dalle secche municipalistiche di troppa poesia dialettale, prima di Pasolini, per intenderci, e hanno raccontato con originalità, senza mai cadere nella maniera, la vita... Così i fili della poesia si sono diramati in tutte le direzioni lungo una terra il cui nome evoca un passato molto antico, e hanno creato un arazzo che più vario e ricco non potrebbe essere». «Io sono un golfo», disse un giorno Marin agli amici. E l’antologia che gli è stata dedicata assomiglia proprio a un golfo dove si intrecciano sguardi, talenti, lampi, parole perdute e ritrovate, le “parole di legno” evocate da Ernesto Calzavara. Questa musicalissima teoria di voci, lingue e suoni è aperta da una breve lirica scritta da Novella Cantarutti, un inno bellissimo in friulano per Marin, poeta fatto di mare e vento, mâr e buera , «fermo sull’onda dell’eternità». In conclusione del viaggio ci sono alcuni versi di Biaseto, quelli dove dice che nulla è passato e tutto vive ed è presente. Ninte no’ xe passào / e duto vive e xe presente / un sielo solo levante e ponente / un solo sol m’ha iluminào.
mercoledì 1 luglio 2009
Cinquanta poesie per Biagio Marin a cura di Anna De Simone
Lunedì 29 giugno, presso il Centro Studi Biagio Marin di Grado, è stato presentato il volume "CInquanta poesie per Biagio Marin" curato dalla studiosa Anna De Simone di Milano. Il ponderoso volume, come ha sottolineato la presidente del Centro Studi Edda Serra, raccoglie i testi dei maggiori poeti dialettali del Novecento nella cui poesia vi sono echi della frequentazione con l'opera del grande poeta gradese. Anna De Simone, considerata tra i maggiori esperti nazionali di poesia in dialetto ed autrice di una nota biografia di Marin, ha scritto inoltre per l'occasione un lungo saggio introduttivo che è anche una sorta di intenso viaggio poetico che va dall'Istria cantata dal rovignese Zanini fino alla Sicilia di Nino De Vita. Il volume raccoglie difatti cinquanta poesie di autori di varie aree geografiche che vanno da Pasolini a Tonino Guerra, da Franco Loi fino a Pier Luigi Cappello. Il libro vuol essere, come è stato ricordato, anche un valido strumento per gli alunni delle nostre scuole. La bellissima serata ha offerto al numeroso pubblico presente anche l'occasione di ascoltare le letture di alcuni dei più noti poeti viventi in dialetto come il siciliano Nino de Vita, il torinese Remigio Bertolino, i veneti Luciano Cecchinel, Luigi Bressan e Fabio Franzin, il friulano Pierluigi Cappello e il bisiaco Ivan Crico.
martedì 16 giugno 2009
Lingua veneta da insegnare perché èmemoria storica
Il Gazzettino,
Lunedì 15 Giugno 2009, pag. 9
Desidero intervenire sull'insegnamento del veneto nelle scuole.
In questi ultimi tempi diversi esponenti del mondo politico locale hanno pubblicato, su queste pagine, delle lunghe riflessioni legate alla proposta d'insegnamento della lingua veneta e delle sue varianti nelle scuole della regione avanzata di recente dal ministro Zaia. Che si parli di queste cose - a favore o contro - è comunque un fatto più che positivo, si badi; ma che può anche dar adito, al tempo stesso, a scorrette interpretazioni. Vorrei allora ricordare, senza far torto a nessuno, che proposte di questo tipo sono state formulate, già da alcuni decenni e con argomentazioni certamente più articolate, da importanti associazioni culturali, in pubblici interventi e con numerosi articoli apparsi su siti, giornali e riviste locali e nazionali. Questo per dire che, al di là del dibattito politico più o meno condivisibile, le motivazioni profonde che stanno alla base di queste richieste affondano le loro radici nel lavoro decennale di molti studiosi veneti e non solo che - alla pari di quelli catalani o irlandesi - si sono posti il problema di porre in salvo questi preziosi linguaggi nel tempo dell'omologazione. Linguaggi che sono un patrimonio di tutti, sottolineo "tutti", i cittadini della regione Veneto (e non solo del Veneto, ma anche di parte del Friuli Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e Montenegro oltre che di molte altre località estere) poiché ci parlano della nostra storia così complessa e stratificata, delle diverse genti che qui si sono incontrate nel corso dei millenni. Come ci ha dimostrato benissimo, del resto, il compianto Cortellazzo nel suo bellissimo dizionario dedicato alla città (allora davvero multietnica) di Venezia nel Cinquecento. Per chi ama veramente questi linguaggi, questi strumenti sonori e grafici che l'uomo ha trovato per comunicare agli altri uomini le proprie necessità primarie come le più profonde aspirazioni interiori, non esistono linguaggi di serie A e di serie B: per questo non è possibile pensare di amare l'italiano senza non amare, al tempo stesso, anche il veneto o il sardo o il piemontese. E viceversa. Altrimenti non facciamo cultura degna di essere trasmessa alle future generazioni ma rimaniamo confinati, al massimo, nel più bieco campanilismo.
Questa lingue, come il veneto ancor oggi ingiustamente non riconosciute dal nostro Stato, ci parlano di valori, di esperienze maturate nel corso dei secoli, tramandate da padre in figlio, prima che una falsa idea di progresso, legata ad una visione miope del concetto di nazione ed anche a molti interessi commerciali, non cominciasse a cercare di convincere le persone a disfarsi di questo immenso patrimonio per sostituirlo con altri più o meno reali valori. Il passaggio è stato dunque spesso da continuatori (nel senso di chi continua un'opera e a volte la perfeziona) a passivi consumatori. D'altra parte, non si può indurre qualcuno ad accettare od acquistare qualcosa di cui non ha la necessità se non convincendolo che quello che già possiede o non va bene oppure lo squalifica socialmente. Quante cose sono state buttate via, assieme a questi linguaggi, quante razze animali scomparse, quante antiche mura abbattute per far spazio a presunte migliorie che, con il tempo, si sono rivelate disastrose per l'ambiente od esteticamente di molto inferiori alle cose a cui si sono sostituite.
Gli esempi, come sappiamo purtroppo, potrebbero continuare per pagine. Il problema è che quest'opera di cancellazione, più o meno palese, di tutte quelle cose che ci legavano al nostro passato, non si è fermata. Continua incessantemente. Dobbiamo cercare dunque - se non vogliamo rimanere senza alcuna memoria di ciò che siamo stati - di promuovere una cultura che si opponga a tutto questo, una cultura in grado di far capire alle nuove generazioni i lati positivi e negativi della storia passata, imparando a difendere quanto c'è stato di buono e, al tempo stesso, liberandosi da tutti quei preconcetti o visioni di parte che sono nate dalla miseria, dall'ignoranza o, purtroppo, dall'interesse. Per cui, in un modo o nell'altro se crediamo in queste cose, la salvaguardia e la valorizzazione della lingua veneta e delle sue varianti dev'essere portata avanti (a fianco dello studio sempre più approfondito dell'italiano e dell'inglese ci si augura) anche nelle scuole. Si tratta di un passaggio necessario. Senza imposizioni e nel rispetto delle tante diverse culture che compongono oggi il variegato panorama del nostro mondo, certo, affinché la differenza non sia più vissuta come contrapposizione ma come una ricchezza di cui tutti possano godere, come un bosco ci appare tanto più bello quanto più in esso vi crescono specie d'alberi e piante tra le più diverse.
IVAN CRICO
Lunedì 15 Giugno 2009, pag. 9
Desidero intervenire sull'insegnamento del veneto nelle scuole.
In questi ultimi tempi diversi esponenti del mondo politico locale hanno pubblicato, su queste pagine, delle lunghe riflessioni legate alla proposta d'insegnamento della lingua veneta e delle sue varianti nelle scuole della regione avanzata di recente dal ministro Zaia. Che si parli di queste cose - a favore o contro - è comunque un fatto più che positivo, si badi; ma che può anche dar adito, al tempo stesso, a scorrette interpretazioni. Vorrei allora ricordare, senza far torto a nessuno, che proposte di questo tipo sono state formulate, già da alcuni decenni e con argomentazioni certamente più articolate, da importanti associazioni culturali, in pubblici interventi e con numerosi articoli apparsi su siti, giornali e riviste locali e nazionali. Questo per dire che, al di là del dibattito politico più o meno condivisibile, le motivazioni profonde che stanno alla base di queste richieste affondano le loro radici nel lavoro decennale di molti studiosi veneti e non solo che - alla pari di quelli catalani o irlandesi - si sono posti il problema di porre in salvo questi preziosi linguaggi nel tempo dell'omologazione. Linguaggi che sono un patrimonio di tutti, sottolineo "tutti", i cittadini della regione Veneto (e non solo del Veneto, ma anche di parte del Friuli Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e Montenegro oltre che di molte altre località estere) poiché ci parlano della nostra storia così complessa e stratificata, delle diverse genti che qui si sono incontrate nel corso dei millenni. Come ci ha dimostrato benissimo, del resto, il compianto Cortellazzo nel suo bellissimo dizionario dedicato alla città (allora davvero multietnica) di Venezia nel Cinquecento. Per chi ama veramente questi linguaggi, questi strumenti sonori e grafici che l'uomo ha trovato per comunicare agli altri uomini le proprie necessità primarie come le più profonde aspirazioni interiori, non esistono linguaggi di serie A e di serie B: per questo non è possibile pensare di amare l'italiano senza non amare, al tempo stesso, anche il veneto o il sardo o il piemontese. E viceversa. Altrimenti non facciamo cultura degna di essere trasmessa alle future generazioni ma rimaniamo confinati, al massimo, nel più bieco campanilismo.
Questa lingue, come il veneto ancor oggi ingiustamente non riconosciute dal nostro Stato, ci parlano di valori, di esperienze maturate nel corso dei secoli, tramandate da padre in figlio, prima che una falsa idea di progresso, legata ad una visione miope del concetto di nazione ed anche a molti interessi commerciali, non cominciasse a cercare di convincere le persone a disfarsi di questo immenso patrimonio per sostituirlo con altri più o meno reali valori. Il passaggio è stato dunque spesso da continuatori (nel senso di chi continua un'opera e a volte la perfeziona) a passivi consumatori. D'altra parte, non si può indurre qualcuno ad accettare od acquistare qualcosa di cui non ha la necessità se non convincendolo che quello che già possiede o non va bene oppure lo squalifica socialmente. Quante cose sono state buttate via, assieme a questi linguaggi, quante razze animali scomparse, quante antiche mura abbattute per far spazio a presunte migliorie che, con il tempo, si sono rivelate disastrose per l'ambiente od esteticamente di molto inferiori alle cose a cui si sono sostituite.
Gli esempi, come sappiamo purtroppo, potrebbero continuare per pagine. Il problema è che quest'opera di cancellazione, più o meno palese, di tutte quelle cose che ci legavano al nostro passato, non si è fermata. Continua incessantemente. Dobbiamo cercare dunque - se non vogliamo rimanere senza alcuna memoria di ciò che siamo stati - di promuovere una cultura che si opponga a tutto questo, una cultura in grado di far capire alle nuove generazioni i lati positivi e negativi della storia passata, imparando a difendere quanto c'è stato di buono e, al tempo stesso, liberandosi da tutti quei preconcetti o visioni di parte che sono nate dalla miseria, dall'ignoranza o, purtroppo, dall'interesse. Per cui, in un modo o nell'altro se crediamo in queste cose, la salvaguardia e la valorizzazione della lingua veneta e delle sue varianti dev'essere portata avanti (a fianco dello studio sempre più approfondito dell'italiano e dell'inglese ci si augura) anche nelle scuole. Si tratta di un passaggio necessario. Senza imposizioni e nel rispetto delle tante diverse culture che compongono oggi il variegato panorama del nostro mondo, certo, affinché la differenza non sia più vissuta come contrapposizione ma come una ricchezza di cui tutti possano godere, come un bosco ci appare tanto più bello quanto più in esso vi crescono specie d'alberi e piante tra le più diverse.
IVAN CRICO
sabato 30 maggio 2009
La lingua veneta a scuola e le «vestali» dell’italiano
Riportiamo un brano (epurato, secondo lo Statuto della nostra associazione, da ogni riferimento politico) tratto da un'interessante lettera del ministro LUCA ZAIA* al "Corriere del Veneto" in cui si difende la proposta di inserire la lingua veneta tra quelle insegnate in quei territori in cui questa è stata storicamente impiegata.
A tutti quelli che pensano alla lingua come a un mondo morto, mai in evoluzione, custodito dalle accademie e dalle corti, vale la pena di ricordare che fu Umberto Eco, non un pericoloso eversore leghista, ad affermare che a far l'Italia fu Cavour, ma a far l'italiano fu Mike Bongiorno. Detto questo, a quelli da sempre educati alla doppia verità (ce n'è una per loro e una per il popolo) ribadisco il mio pensiero.
(...) Il veneto non è un dialetto, ma una lingua nazionale. Si tratta cioè di quel lessico materno che attiene alla storia di una comunità che vive su un territorio. Si tratta di una ricchezza, non di una privazione. È una ricchezza socialmente trasversale perché appartiene al ricco come al povero. Lo stesso non può dirsi per quella lingua meta territoriale (e un po' metastorica) che è l'italiano scolastico, per la cui difesa si intenerisce Fausto Pezzato. È una questione di logica: nessuno vuole separare il Veneto dal resto della Penisola usando la lingua come grimaldello. Piuttosto è vero che una parte della nazione ha cercato di ghettizzare il Veneto censurando la sua lingua e ridicolizzandola attraverso potenti sistemi di comunicazione di massa, insegnanti che con il territorio non avevano nulla a che spartire e programmi scolastici come chiavi dell'ideologia statalista. Rivendicare il diritto di utilizzare la lingua madre non è asserragliarsi nel fortino, ma sentirsi un tutt'uno con i propri valori.
(...)
*ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali
22 maggio 2009
A tutti quelli che pensano alla lingua come a un mondo morto, mai in evoluzione, custodito dalle accademie e dalle corti, vale la pena di ricordare che fu Umberto Eco, non un pericoloso eversore leghista, ad affermare che a far l'Italia fu Cavour, ma a far l'italiano fu Mike Bongiorno. Detto questo, a quelli da sempre educati alla doppia verità (ce n'è una per loro e una per il popolo) ribadisco il mio pensiero.
(...) Il veneto non è un dialetto, ma una lingua nazionale. Si tratta cioè di quel lessico materno che attiene alla storia di una comunità che vive su un territorio. Si tratta di una ricchezza, non di una privazione. È una ricchezza socialmente trasversale perché appartiene al ricco come al povero. Lo stesso non può dirsi per quella lingua meta territoriale (e un po' metastorica) che è l'italiano scolastico, per la cui difesa si intenerisce Fausto Pezzato. È una questione di logica: nessuno vuole separare il Veneto dal resto della Penisola usando la lingua come grimaldello. Piuttosto è vero che una parte della nazione ha cercato di ghettizzare il Veneto censurando la sua lingua e ridicolizzandola attraverso potenti sistemi di comunicazione di massa, insegnanti che con il territorio non avevano nulla a che spartire e programmi scolastici come chiavi dell'ideologia statalista. Rivendicare il diritto di utilizzare la lingua madre non è asserragliarsi nel fortino, ma sentirsi un tutt'uno con i propri valori.
(...)
*ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali
22 maggio 2009
domenica 1 marzo 2009
Primo marzo: Nozioni storiche sul Capodanno Veneto
Il calendario Veneto affonda le radici nella notte dei tempi fra i popoli indoeuropei. La zona originaria dei Veneti era il nord dell’Europa centrale (zona Lusaziana), dove gli scavi archeologici degli ultimi 30 anni stanno confermando quello che diverse fonti antiche riportavano.
La civiltà veneta antica (venetica) sapeva coltivare, produrre il vino, allevare gli animali, scrivere, lavorare i metalli e le ceramiche, fare arte nelle case e nei monili, già attorno il 3000 Avanti Cristo.
Questa civiltà creatrice aveva come divinità principale la Dea Retia che era appunto la divinità della vita, della salute e generatrice di essa.
Non stupisce dunque che proprio quando la terra, ancora nel freddo, inizia l’attività generatrice e si prepara alla primavera, ossia nel mese di marzo, proprio allora i veneti festeggiassero la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo.
Attorno al 2500 A.C. iniziarono diverse migrazioni dei veneti, secondo alcuni per cause climatiche ed ambientali, secondo altri per una certa naturale espansione di una civiltà che sapeva dare molto alle altre senza bisogno di far guerra. Essi si espansero in tutte le direzioni, cosicché sono di origine indoeuropea anche le popolazioni dell’est come dell ovest fino all’odierno Iran.
Verso sud essi si stanziarono anche nell’Anatolia, e successivamente, intorno al 1200 A.C., a seguito della guerra di Troia da cui Antenore fu salvato, si stanziarono nell’alto Adriatico, fondando Padova e altre Città.
Forse perché i romani ebbero come capostipite Enea, un discendente di Antenore, anche essi usavano il calendario indoeuropeo con inizio a marzo, ma tuttavia esso non rispondeva bene alle loro necessità dato che era di originario di luoghi soggetti all’inverno artico.
Alcuni sostengono che per loro l’anno iniziasse a marzo e fosse intitolato a Marte, ma secondo la mitologia romana arcaica, quella più antica, Marte era appunto il dio della natura, della fertilità, della pioggia e dei tuoni e fu solo successivamente, in età classica , che divenne il dio della Guerra.
Comunque fosse, ancora oggi il calendario risente dell’impronta indoeuropea, per cui a partire da Marzo, il mese della rinascita, si contano i dieci mesi, di cui il settimo (settembre), l’ottavo (ottobre), il nono (novembre) e il decimo (dicembre) conservano ancora il ricordo. Il quinto (Luglio ) e il sesto (Agosto ) furono poi intotalati a Julius e ad Cesare Augustus. Gennaio e Febbraio furono aggiunti con varie riforme per dare conto al ciclo delle stagioni che più a sud di dove nacque è diverso nei tempi della luce .
Così, anche nella millenaria Serenissima Repubblica l’anno cominciava il 1 Marzo e Gennaio e Febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno .
Nel 2006 venti comuni della pedemontana Berica hanno spento le luci per ore per offrire lo spettacolo di mille falò del Brusamarzo, che hanno bruciato l’anno che se ne va. Il “battere Marzo” è tuttora diffuso in tutto l’Altopiano d’Asiago, ma anche nel Padovano e nel Trevigiano, oltre alle feste locali per “ciamar Marzo” .
Il “Comitato per le Belle Costumanze” continua l’opera del suo fondatore, Bepin Segato.
La festa per il Capodanno del 1 Marzo non dura soltanto un giorno. Gli auguri si fanno gli ultimi tre giorni di febbraio, cioè gli ultimi giorni dell’anno, e si va avanti fino al nono giorno di Marzo. Batter Marzo, o brusar Marzo, o ciamar Marzo significa risvegliare l’anno nuovo, la vita addormentata, perchè si ridesti.
(Dal sito "Comitato per le Belle Costumanze Venete"
La civiltà veneta antica (venetica) sapeva coltivare, produrre il vino, allevare gli animali, scrivere, lavorare i metalli e le ceramiche, fare arte nelle case e nei monili, già attorno il 3000 Avanti Cristo.
Questa civiltà creatrice aveva come divinità principale la Dea Retia che era appunto la divinità della vita, della salute e generatrice di essa.
Non stupisce dunque che proprio quando la terra, ancora nel freddo, inizia l’attività generatrice e si prepara alla primavera, ossia nel mese di marzo, proprio allora i veneti festeggiassero la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo.
Attorno al 2500 A.C. iniziarono diverse migrazioni dei veneti, secondo alcuni per cause climatiche ed ambientali, secondo altri per una certa naturale espansione di una civiltà che sapeva dare molto alle altre senza bisogno di far guerra. Essi si espansero in tutte le direzioni, cosicché sono di origine indoeuropea anche le popolazioni dell’est come dell ovest fino all’odierno Iran.
Verso sud essi si stanziarono anche nell’Anatolia, e successivamente, intorno al 1200 A.C., a seguito della guerra di Troia da cui Antenore fu salvato, si stanziarono nell’alto Adriatico, fondando Padova e altre Città.
Forse perché i romani ebbero come capostipite Enea, un discendente di Antenore, anche essi usavano il calendario indoeuropeo con inizio a marzo, ma tuttavia esso non rispondeva bene alle loro necessità dato che era di originario di luoghi soggetti all’inverno artico.
Alcuni sostengono che per loro l’anno iniziasse a marzo e fosse intitolato a Marte, ma secondo la mitologia romana arcaica, quella più antica, Marte era appunto il dio della natura, della fertilità, della pioggia e dei tuoni e fu solo successivamente, in età classica , che divenne il dio della Guerra.
Comunque fosse, ancora oggi il calendario risente dell’impronta indoeuropea, per cui a partire da Marzo, il mese della rinascita, si contano i dieci mesi, di cui il settimo (settembre), l’ottavo (ottobre), il nono (novembre) e il decimo (dicembre) conservano ancora il ricordo. Il quinto (Luglio ) e il sesto (Agosto ) furono poi intotalati a Julius e ad Cesare Augustus. Gennaio e Febbraio furono aggiunti con varie riforme per dare conto al ciclo delle stagioni che più a sud di dove nacque è diverso nei tempi della luce .
Così, anche nella millenaria Serenissima Repubblica l’anno cominciava il 1 Marzo e Gennaio e Febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno .
Nel 2006 venti comuni della pedemontana Berica hanno spento le luci per ore per offrire lo spettacolo di mille falò del Brusamarzo, che hanno bruciato l’anno che se ne va. Il “battere Marzo” è tuttora diffuso in tutto l’Altopiano d’Asiago, ma anche nel Padovano e nel Trevigiano, oltre alle feste locali per “ciamar Marzo” .
Il “Comitato per le Belle Costumanze” continua l’opera del suo fondatore, Bepin Segato.
La festa per il Capodanno del 1 Marzo non dura soltanto un giorno. Gli auguri si fanno gli ultimi tre giorni di febbraio, cioè gli ultimi giorni dell’anno, e si va avanti fino al nono giorno di Marzo. Batter Marzo, o brusar Marzo, o ciamar Marzo significa risvegliare l’anno nuovo, la vita addormentata, perchè si ridesti.
(Dal sito "Comitato per le Belle Costumanze Venete"
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