martedì 17 novembre 2009

Bibliografia dei dialetti del Veneto

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*
Questa bibliografia, che è sostanzialmente la bibliografia del volume Dialetti veneti.
Grammatica e storia, di Marcato – Ursini, è aggiornata all’anno 1998 [vedi anche
Appendice. Pubblicazioni correlate].
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assieme ad elementi provenzali, francesi e francoitaliani, in un impasto tipico
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se non mancano esempi di ibridismo linguistico, ascrivibili alla cultura letteraria
dell’epoca].
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scandalosi di storia contemporanea databili tra il 1152 e il 1160].
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descrizione è condotta per singoli fenomeni classificati sulla base della matrice
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Filippo da Padova della fine del XIV secolo].
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Tagliavini C., Il dialetto del Comelico, rist. anast. Dell’edizione del 1926 con correzioni ed
aggiunte, Comunità montana del Comelico e Sappada, 1988.
Tagliavini C., Nuovi contributi alla conoscenza del dialetto del Comelico, rist. anast.
Dell’edizione del 1942-44, Comunità montana del Comelico e Sappada, 1988.
Tagliavini C., Il dialetto del Livinallongo. Saggio lessicale, Bolzano, Istituto di studi per l’Alto
Adige, 1934.
Tekavčić P., Grammatica storica dell’italiano, Bologna, Il Mulino, 1972 [il fuoco della
trattazione è la lingua letteraria, ma non mancano indicazioni relative a fatti
dialettali, interpretati in base al metodo strutturalista].
Tenzone dialettale = M. Corti, Una tenzone poetica del secolo XIV in veneziano, padovano e
trevisano, in V. Branca, G. Padoan (a cura di), Dante e la cultura veneta, Firenze,
Olschki, 1966, pp. 129-142; Brugnolo F., La tenzone tridialettale del Canzoniere
Colombino di Nicolòde' Rossi. Appunti di lettura, in Quaderni veneti, 3 (1986), pp. 41-84
[tre sonetti che evocano una tenzone, quasi certamente fittizia, fra poeti, ognuno
dei quali caratterizza, con una alta concentrazione di caratteri tipici, una varietà
veneta (padovano, trevigiano e veneziano)].
Tomasi G., Dizionario del dialetto di Revine, Belluno, Istituto bellunese di ricerche sociali e
culturali, 1992 (Il ed. ampliata di: Dizionario del dialetto bellunese arcaico, 1983).
Tommasoni P., Per una storia dell’antico trevisano, in Studi di grammatica italiana 3 (1973), pp.
155-206.
Trumper J., Il gruppo dialettale padovano-polesano. La sua unità, le sue ramificazioni, Padova,
Rebellato, 1972.
Trumper J., Vigolo M.T., Il Veneto Centrale. Problemi di classificazione dialettale e di fitonimia,
Padova, Centro di Studio per la Dialettologia Italiana del CNR, 1995.
Tuttle E.F., Un mutamento linguistico e il suo inverso: l’apocope nell’Alto Veneto, in Rivista
Italiana di Dialettologia 5 (1981-82), pp. 15-35.
Tuttle E.F., Snaturalité e la s- iniziale pavana: considerazione storica e stlistica, in Studi
Mediolatini e Volgari 28 (1981), pp. 103-118.
Tuttle E.F., Le interdentali venete nella storia delle sibilanti romanze occidentali, in Guida ai dialetti
veneti VII (1985), pp. 7-43.
Ursini F., Ricerche sul dialetto. Schede per la raccolta e la elaborazione dei dati, in Partecipazione e
ricerca nella cultura locale, Padova, L’Albero, La Memoria, 1980, pp. 169-177.
Ursini F., Per uno studio del dialetto come lingua orale. Problemi di metodo, in Il dialetto dall’oralità
alla scrittura. Atti del XIII Convegno per gli Studi Dialettali italiani, Pisa, Pacini,
1984, pp. 65-73.
Ursini F., Sedimentazioni culturali sulle coste orientali dell’Adriatico: il lessico veneto-dalmata del
Novecento, in Atti e memorie della Società Dalmata di Storia Patria 15 (1987), pp. 20-
179.
Ursini F.; Varietà venete in Friuli-Venezia Giulia, in G. Holtus, M. Metzeltin, C. Schmitt
(edd.), Lexikon der Romanistischen Linguistik, voI. 4, Tübingen, Niemeyer, 1988,
pp. 538-550.
Ursini F., Il veneziano oltremare, in Arti e mestieri tradizionali, a cura di M. Cortelazzo,
Cinisello Balsamo (MI), Pizzi, 1989, pp. 210-233.
Ursini F., Lessico dialettale tra regolarità alternative, in Fra dialetto e lingua nazionale. Atti del
XVIII Convegno di Studi Dialettali Italiani, Padova, Unipress, 1991, pp. 313-
323.
Ursini F., Figure sociali nel mondo popolare, in Cultura popolare del Veneto. Le relazioni sociali, a
cura di M. Cortelazzo, Cinisello Balsamo (MI), Pizzi, 1992, pp. 9-23.
Venturi A.G., Saggio di un dizionario veronese italiano, Verona, Moroni, 1800.
Vigolo M.T., Ricerche lessicali sul dialetto dell’Alto Vicentino, Tübingen, Niemeyer, 1992.
Villabruna = G.B. Pellegrini, La ‘lingua rustega feltrina’ in Vittore Villabruna (sec.xVIII), in
Medioevo e rinascimento veneto con altri studi in onore di L. Lazzarini, Padova,
Antenore, 1979, vol. II, pp. 307-325.
Vulpe M., Syntaxe du dialecte et syntaxe de la langue parlée, in La Ricerca Dialettale m,. Pisa,
Pacini, 1981, pp. 35-48.
Zamboni A., Veneto, Pisa, Pacini, 1974.
Zamboni A., Gli anglicismi nei dialetti italiani, in Elementi stranieri nei dialetti italiani. Atti del
XIV Convegno del Centro di Studio per la Dialettologia Italiana, Pisa, Pacini,
1988, pp. 79-125.
Zanette E., Dizionario del dialetto di Vittorio Veneto, Treviso, Longo e Zoppelli, 1955 (2a
ed: Vittorio Veneto, De Bastiani, 1980).
Zanzotto A., Allucinazioni dialettali, in Veneto. Connessioni Culturali, a cura di G. Marcato,
Padova, L'Albero, La Memoria, 1983, pp. 13-14.
Zanzotto A., Filò, Venezia, ed. Ruzante, 1976.
Zibaldone da Canal = A. Stussi, Lo Zibaldone da Canal, manoscritto mercantile del secolo XIV,
Venezia, Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia,
1967.
Zolli P., La «Raccolta de’ proverbii, detti sentenze, parole e frasi veneziane» di F.Z Muazzo, in
Studi veneziani II (1969), pp. 537-582.
Zolli P., L’influsso francese sul veneziano del XVIII secolo, Venezia, Istituto veneto di
Scienze, Lettere ed Arti, 1971.
Zolli P., Riflessi linguistici della dominazione austriaca a Venezia, in Scritti linguistici in onore di
G.B. Pellegrini, risa, Pacini, 1983, pp. 209-226.
Zolli P., Le parole straniere (2a ed. a cura di F. Ursini), Bologna, 1991.


(A cura del Consiglio della Regione Veneto)

lunedì 12 ottobre 2009

a Ivan Crico il premio nazionale di poesia Biagio Marin


Da "Il Piccolo" 11.10.2009


Sabato 17 ottobre saranno consegnati i riconoscimenti ai vincitori del “Premio nazionale Biagio Marin” edizione 2009, da quasi vent'anni il maggior premio dedicato alla poesia nei dialetti e nelle lingue minoritarie in Italia, nato per ricordare l'opera e la figura del grande poeta gradese.
A testimonianza della riconosciuta serietà del premio, la giuria ha la facoltà di premiare difatti, oltre ai libri presentati, qualsiasi altro volume in dialetto o saggio edito in Italia negli ultimi due anni. Nel tempo la commissione giudicatrice è stata composta, fin dagli inizi, dai maggiori studiosi e poeti italiani, dal compianto Carlo Bo a Franco Brevini, da Pietro Gibellini a Franco Loi, da Edda Serra a Giovanni Tesio. Tra i vincitori delle scorse edizioni inoltre troviamo alcuni tra i più significativi poeti in dialetto e studiosi del Novecento: basti qui ricordare soltanto i nomi di Paolo Bertolani, Enesto Calzavara, Amedeo Giacomini, Franca Grisoni e, per la sezione dedicata alla saggistica, Dante Isella, Cesare Segre, Alfredo Stussi.
Quattro sono le persone che riceveranno il prestigioso riconoscimento. All’unanimità la giuria ha deliberato di assegnare il premio Marin di 5000 euro ex aequo al poeta bisiaco Ivan Crico, per la raccolta “De arzent zu-D’argento scomparso”, edito dall’Istituto Giuliano di Storia, Cultura e Documentazione e al brianzolo Piero Marelli per la silloge “I nocc-Le notti” edita da Lieto Colle. Ne dà notizia la presidente del Centro Studi Biagio Marin, Edda Serra. La giuria del Premio per la poesia in dialetto edita formata da Franco Loi, Giovanni Tesio, Pietro Gibellini, Gianni Oliva, Edda Serra e Flavia Moimas, si è riunita a Brescia e ha stabilito altresì di assegnare altri due premi. Quello riservato alla personalità che nel corso della sua attività ha onorato la poesia in dialetto e contribuito alla sua conoscenza, sempre con giudizio unanime, è stato assegnato a Lucio Felici, al quale va il premio del Comune di Grado di 2500 euro. Felici è noto per i suoi studi su autori in romanesco dal ‘300 a oggi e sui poeti di marca Trevigiana, in particolare Calzavara e Zanzotto. Infine, sempre all’unanimità, per la saggistica su Biagio Marin e il suo mondo il premio sarà assegnato a Caterina Conti per la tesi di laurea “I diari e le lettere di Falco Marin: slanci idealistici ed esperienza militare” discussa all’Università di Trieste.
La cerimonia di consegna si terrà a Grado (GO) il 17 ottobre alle 17.30 nella sal consiliare del municipio.

martedì 7 luglio 2009

I cinquanta fratelli di Marin un poeta fra mare e vento

da: Messaggero Veneto — 05 luglio 2009 pagina 09
sezione: CULTURA - SPETTACOLO

di PAOLO MEDEOSSI In principio c’era un uomo che, stanco della solitudine, sognava di far uscire dal loro silenzio gli abitanti dell’isola dov’era stato bambino. Quell’uomo, un poeta, provò a bussare a tutte le case dell’antico borgo, piccolo nido protetto da quel nido più grande che era l’isola. Inutilmente. Nel silenzio delle calli e dei campielli si sentiva solo l’eco del suo bussare. Allora capì che era arrivata l’ora di lasciare l’isola e i suoi anni bambini e di avviarsi con coraggio verso strade sconosciute, se voleva spezzare il cerchio che lo teneva prigioniero di quel suo mondo di sassi. Quell’uomo era Biagio Marin che in una fiaba lirica autobiografica ( Stanco de solitae/ l’omo a batuo a la porta... ) narrò la condizione del poeta nella Grado di inizio Novecento mentre appunto cercava chi gli aprisse per ascoltare i versi scritti nel dialetto parlato da una minuscola comunità di pescatori in un’isola sperduta fra mare e laguna, poco conosciuta nel 1912 quando cominciava la grande avventura della poesia mariniana. Insomma, doveva proprio partire per andare a scoprire i suoi veri fratelli. Un’avventura diventata a poco a poco, nel tempo, nei 94 anni di vita di Biaseto (morto nel 1985) e anche dopo, assolutamente straordinaria tanto che le sue liriche e le sue parole si sono posate, come le foglie di un albero, dovunque negli angoli più impensati di città, paesi, contrade sconosciute. A proporre queste intuizioni e queste immagini splendide legate a Marin, a ciò che ha scritto e ci ha lasciato, è adesso Anna De Simone che ha curato il volume Cinquanta poesie per Biagio Marin , pubblicato per i Quaderni del Centro studi dedicato al poeta gradese, in una collana diretta da Edda Serra. È stato presentato nei giorni scorsi, esattamente il 29 giugno, anniversario della nascita di Biagio che così è stato festeggiato con una intensità naturale e sorprendente. All’origine del libro c’è proprio l’idea di completare quello che era nella mente del poeta che aveva voluto sfidare la solitudine, un destino, un mondo per far largo alle sue fragili, potentissime e magiche parole, che restarono sempre simili a quelle pronunciate dai bambini. «Altri poeti – scrive Anna De Simone -, seguendo anche inconsapevolmente le orme di Marin in quel loro silenzioso obbedire a una musa vestita di stracci, hanno raccontato, ciascuno nel proprio dialetto, la vita, il mondo, se stessi. Io credo che i cinquanta autori delle cinquanta liriche proposte in questa piccola antologia siano proprio i fratelli tanto a lungo cercati da Marin. Fratelli più giovani, provenienti da luoghi diversi, i cui testi in molti casi si spingono fino alle spiagge del terzo millennio». Si tratta, come spiega Edda Serra, di cinquanta voci che fanno coro per onorare Marin, voci di risposta oggi al suo canto e dialogo, ciascuno nella propria diversità, eppure coro compatto di voci scelte, a rappresentare cinquanta dialetti, cinquanta linguaggi poetici, cinquanta paesaggi, cinquanta piccole patrie, che sorprendono però nella loro unità. Un’unità fatta di fedeltà al poetare, di scelta coraggiosa, di cura amorosa e tenace della propria opera e del suo destino, che supera ogni narcisismo. Fra i cinquanta fratelli (e di ognuno è stata scelta una lirica), che rappresentano un po’ tutta l’Italia, tanti sono naturalmente i friulani, i bisiachi, i triestini, come Elio Bartolini, Luigi Bressan, Pierluigi Cappello, Ivan Crico, Nelvia Di Monte, Amedeo Giacomini, Claudio Grisancich, Federico Tavan, Umberto Valentinis, Ida Vallerugo, Gian Mario Villalta, Leonardo Zanier. Su ognuno di essi il libro propone un accurato apparato di note per cui l’antologia diventa alla fine uno sguardo appassionato e affidabile sulla condizione della poesia dialettale in Italia (narrata regione per regione) che, anche se pochi lo sanno al di là degli addetti ai lavori, sta vivendo un momento di particolare vivacità, in contrasto con l’apparente declino della poesia in genere. Anna De Simone, di origini siciliane, risiede a Milano e da sempre segue con grande attenzione i nostri autori avendo dedicato studi e saggi in particolare, oltre che a Marin, a Virgilio Giotti, a Cappello, Tavan e Vallerugo. Nel testo che apre questo suo nuovo libro, dopo aver ricordato lo straordinario impegno come poeta e scopritore di talenti di Amedeo Giacomini, che creò con la rivista Diverse lingue un punto di riferimento fondamentale per tutto il movimento di questi decenni, mette in luce in termini limpidissimi e definitivi un aspetto notevole, scrivendo: «Quello della poesia in Friuli nel secondo Novecento è un fenomeno che non ha precedenti e reclama un discorso a sé: questa terra ci ha dato infatti, nell’ultimo scorcio del XX secolo, assieme alla Romagna, il maggior numero di poeti di alto livello. Molti se ne sono accorti, pochi se ne sono occupati in maniera approfondita... I dialetti stanno morendo – su questo sono tutti d’accordo – ma la lingua friulana, nella molteplicità e ricchezza delle sue varianti, non aveva mai conosciuto in passato esiti tanto diversificati e originali, grazie ad autori che si sono collocati con decisione, consapevolezza e senso d’arte fuori dalle secche municipalistiche di troppa poesia dialettale, prima di Pasolini, per intenderci, e hanno raccontato con originalità, senza mai cadere nella maniera, la vita... Così i fili della poesia si sono diramati in tutte le direzioni lungo una terra il cui nome evoca un passato molto antico, e hanno creato un arazzo che più vario e ricco non potrebbe essere». «Io sono un golfo», disse un giorno Marin agli amici. E l’antologia che gli è stata dedicata assomiglia proprio a un golfo dove si intrecciano sguardi, talenti, lampi, parole perdute e ritrovate, le “parole di legno” evocate da Ernesto Calzavara. Questa musicalissima teoria di voci, lingue e suoni è aperta da una breve lirica scritta da Novella Cantarutti, un inno bellissimo in friulano per Marin, poeta fatto di mare e vento, mâr e buera , «fermo sull’onda dell’eternità». In conclusione del viaggio ci sono alcuni versi di Biaseto, quelli dove dice che nulla è passato e tutto vive ed è presente. Ninte no’ xe passào / e duto vive e xe presente / un sielo solo levante e ponente / un solo sol m’ha iluminào.

mercoledì 1 luglio 2009

Cinquanta poesie per Biagio Marin a cura di Anna De Simone

Lunedì 29 giugno, presso il Centro Studi Biagio Marin di Grado, è stato presentato il volume "CInquanta poesie per Biagio Marin" curato dalla studiosa Anna De Simone di Milano. Il ponderoso volume, come ha sottolineato la presidente del Centro Studi Edda Serra, raccoglie i testi dei maggiori poeti dialettali del Novecento nella cui poesia vi sono echi della frequentazione con l'opera del grande poeta gradese. Anna De Simone, considerata tra i maggiori esperti nazionali di poesia in dialetto ed autrice di una nota biografia di Marin, ha scritto inoltre per l'occasione un lungo saggio introduttivo che è anche una sorta di intenso viaggio poetico che va dall'Istria cantata dal rovignese Zanini fino alla Sicilia di Nino De Vita. Il volume raccoglie difatti cinquanta poesie di autori di varie aree geografiche che vanno da Pasolini a Tonino Guerra, da Franco Loi fino a Pier Luigi Cappello. Il libro vuol essere, come è stato ricordato, anche un valido strumento per gli alunni delle nostre scuole. La bellissima serata ha offerto al numeroso pubblico presente anche l'occasione di ascoltare le letture di alcuni dei più noti poeti viventi in dialetto come il siciliano Nino de Vita, il torinese Remigio Bertolino, i veneti Luciano Cecchinel, Luigi Bressan e Fabio Franzin, il friulano Pierluigi Cappello e il bisiaco Ivan Crico.

martedì 16 giugno 2009

Lingua veneta da insegnare perché èmemoria storica

Il Gazzettino,
Lunedì 15 Giugno 2009, pag. 9


Desidero intervenire sull'insegnamento del veneto nelle scuole.
In questi ultimi tempi diversi esponenti del mondo politico locale hanno pubblicato, su queste pagine, delle lunghe riflessioni legate alla proposta d'insegnamento della lingua veneta e delle sue varianti nelle scuole della regione avanzata di recente dal ministro Zaia. Che si parli di queste cose - a favore o contro - è comunque un fatto più che positivo, si badi; ma che può anche dar adito, al tempo stesso, a scorrette interpretazioni. Vorrei allora ricordare, senza far torto a nessuno, che proposte di questo tipo sono state formulate, già da alcuni decenni e con argomentazioni certamente più articolate, da importanti associazioni culturali, in pubblici interventi e con numerosi articoli apparsi su siti, giornali e riviste locali e nazionali. Questo per dire che, al di là del dibattito politico più o meno condivisibile, le motivazioni profonde che stanno alla base di queste richieste affondano le loro radici nel lavoro decennale di molti studiosi veneti e non solo che - alla pari di quelli catalani o irlandesi - si sono posti il problema di porre in salvo questi preziosi linguaggi nel tempo dell'omologazione. Linguaggi che sono un patrimonio di tutti, sottolineo "tutti", i cittadini della regione Veneto (e non solo del Veneto, ma anche di parte del Friuli Venezia Giulia, Istria, Dalmazia e Montenegro oltre che di molte altre località estere) poiché ci parlano della nostra storia così complessa e stratificata, delle diverse genti che qui si sono incontrate nel corso dei millenni. Come ci ha dimostrato benissimo, del resto, il compianto Cortellazzo nel suo bellissimo dizionario dedicato alla città (allora davvero multietnica) di Venezia nel Cinquecento. Per chi ama veramente questi linguaggi, questi strumenti sonori e grafici che l'uomo ha trovato per comunicare agli altri uomini le proprie necessità primarie come le più profonde aspirazioni interiori, non esistono linguaggi di serie A e di serie B: per questo non è possibile pensare di amare l'italiano senza non amare, al tempo stesso, anche il veneto o il sardo o il piemontese. E viceversa. Altrimenti non facciamo cultura degna di essere trasmessa alle future generazioni ma rimaniamo confinati, al massimo, nel più bieco campanilismo.
Questa lingue, come il veneto ancor oggi ingiustamente non riconosciute dal nostro Stato, ci parlano di valori, di esperienze maturate nel corso dei secoli, tramandate da padre in figlio, prima che una falsa idea di progresso, legata ad una visione miope del concetto di nazione ed anche a molti interessi commerciali, non cominciasse a cercare di convincere le persone a disfarsi di questo immenso patrimonio per sostituirlo con altri più o meno reali valori. Il passaggio è stato dunque spesso da continuatori (nel senso di chi continua un'opera e a volte la perfeziona) a passivi consumatori. D'altra parte, non si può indurre qualcuno ad accettare od acquistare qualcosa di cui non ha la necessità se non convincendolo che quello che già possiede o non va bene oppure lo squalifica socialmente. Quante cose sono state buttate via, assieme a questi linguaggi, quante razze animali scomparse, quante antiche mura abbattute per far spazio a presunte migliorie che, con il tempo, si sono rivelate disastrose per l'ambiente od esteticamente di molto inferiori alle cose a cui si sono sostituite.
Gli esempi, come sappiamo purtroppo, potrebbero continuare per pagine. Il problema è che quest'opera di cancellazione, più o meno palese, di tutte quelle cose che ci legavano al nostro passato, non si è fermata. Continua incessantemente. Dobbiamo cercare dunque - se non vogliamo rimanere senza alcuna memoria di ciò che siamo stati - di promuovere una cultura che si opponga a tutto questo, una cultura in grado di far capire alle nuove generazioni i lati positivi e negativi della storia passata, imparando a difendere quanto c'è stato di buono e, al tempo stesso, liberandosi da tutti quei preconcetti o visioni di parte che sono nate dalla miseria, dall'ignoranza o, purtroppo, dall'interesse. Per cui, in un modo o nell'altro se crediamo in queste cose, la salvaguardia e la valorizzazione della lingua veneta e delle sue varianti dev'essere portata avanti (a fianco dello studio sempre più approfondito dell'italiano e dell'inglese ci si augura) anche nelle scuole. Si tratta di un passaggio necessario. Senza imposizioni e nel rispetto delle tante diverse culture che compongono oggi il variegato panorama del nostro mondo, certo, affinché la differenza non sia più vissuta come contrapposizione ma come una ricchezza di cui tutti possano godere, come un bosco ci appare tanto più bello quanto più in esso vi crescono specie d'alberi e piante tra le più diverse.

IVAN CRICO

sabato 30 maggio 2009

La lingua veneta a scuola e le «vestali» dell’italiano

Riportiamo un brano (epurato, secondo lo Statuto della nostra associazione, da ogni riferimento politico) tratto da un'interessante lettera del ministro LUCA ZAIA* al "Corriere del Veneto" in cui si difende la proposta di inserire la lingua veneta tra quelle insegnate in quei territori in cui questa è stata storicamente impiegata.


A tutti quelli che pensano alla lingua come a un mondo morto, mai in evoluzione, custodito dalle accademie e dalle corti, vale la pena di ricordare che fu Umberto Eco, non un pericoloso eversore leghista, ad affermare che a far l'Italia fu Cavour, ma a far l'italiano fu Mike Bongiorno. Detto questo, a quelli da sempre educati alla doppia verità (ce n'è una per loro e una per il popolo) ribadisco il mio pensiero.
(...) Il veneto non è un dialetto, ma una lingua nazionale. Si tratta cioè di quel lessico materno che attiene alla storia di una comunità che vive su un territorio. Si tratta di una ricchezza, non di una privazione. È una ricchezza socialmente trasversale perché appartiene al ricco come al povero. Lo stesso non può dirsi per quella lingua meta territoriale (e un po' metastorica) che è l'italiano scolastico, per la cui difesa si intenerisce Fausto Pezzato. È una questione di logica: nessuno vuole separare il Veneto dal resto della Penisola usando la lingua come grimaldello. Piuttosto è vero che una parte della nazione ha cercato di ghettizzare il Veneto censurando la sua lingua e ridicolizzandola attraverso potenti sistemi di comunicazione di massa, insegnanti che con il territorio non avevano nulla a che spartire e programmi scolastici come chiavi dell'ideologia statalista. Rivendicare il diritto di utilizzare la lingua madre non è asserragliarsi nel fortino, ma sentirsi un tutt'uno con i propri valori.
(...)

*ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali
22 maggio 2009

domenica 1 marzo 2009

Primo marzo: Nozioni storiche sul Capodanno Veneto

Il calendario Veneto affonda le radici nella notte dei tempi fra i popoli indoeuropei. La zona originaria dei Veneti era il nord dell’Europa centrale (zona Lusaziana), dove gli scavi archeologici degli ultimi 30 anni stanno confermando quello che diverse fonti antiche riportavano.

La civiltà veneta antica (venetica) sapeva coltivare, produrre il vino, allevare gli animali, scrivere, lavorare i metalli e le ceramiche, fare arte nelle case e nei monili, già attorno il 3000 Avanti Cristo.

Questa civiltà creatrice aveva come divinità principale la Dea Retia che era appunto la divinità della vita, della salute e generatrice di essa.
Non stupisce dunque che proprio quando la terra, ancora nel freddo, inizia l’attività generatrice e si prepara alla primavera, ossia nel mese di marzo, proprio allora i veneti festeggiassero la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo.

Attorno al 2500 A.C. iniziarono diverse migrazioni dei veneti, secondo alcuni per cause climatiche ed ambientali, secondo altri per una certa naturale espansione di una civiltà che sapeva dare molto alle altre senza bisogno di far guerra. Essi si espansero in tutte le direzioni, cosicché sono di origine indoeuropea anche le popolazioni dell’est come dell ovest fino all’odierno Iran.

Verso sud essi si stanziarono anche nell’Anatolia, e successivamente, intorno al 1200 A.C., a seguito della guerra di Troia da cui Antenore fu salvato, si stanziarono nell’alto Adriatico, fondando Padova e altre Città.

Forse perché i romani ebbero come capostipite Enea, un discendente di Antenore, anche essi usavano il calendario indoeuropeo con inizio a marzo, ma tuttavia esso non rispondeva bene alle loro necessità dato che era di originario di luoghi soggetti all’inverno artico.
Alcuni sostengono che per loro l’anno iniziasse a marzo e fosse intitolato a Marte, ma secondo la mitologia romana arcaica, quella più antica, Marte era appunto il dio della natura, della fertilità, della pioggia e dei tuoni e fu solo successivamente, in età classica , che divenne il dio della Guerra.

Comunque fosse, ancora oggi il calendario risente dell’impronta indoeuropea, per cui a partire da Marzo, il mese della rinascita, si contano i dieci mesi, di cui il settimo (settembre), l’ottavo (ottobre), il nono (novembre) e il decimo (dicembre) conservano ancora il ricordo. Il quinto (Luglio ) e il sesto (Agosto ) furono poi intotalati a Julius e ad Cesare Augustus. Gennaio e Febbraio furono aggiunti con varie riforme per dare conto al ciclo delle stagioni che più a sud di dove nacque è diverso nei tempi della luce .

Così, anche nella millenaria Serenissima Repubblica l’anno cominciava il 1 Marzo e Gennaio e Febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno .
Nel 2006 venti comuni della pedemontana Berica hanno spento le luci per ore per offrire lo spettacolo di mille falò del Brusamarzo, che hanno bruciato l’anno che se ne va. Il “battere Marzo” è tuttora diffuso in tutto l’Altopiano d’Asiago, ma anche nel Padovano e nel Trevigiano, oltre alle feste locali per “ciamar Marzo” .

Il “Comitato per le Belle Costumanze” continua l’opera del suo fondatore, Bepin Segato.
La festa per il Capodanno del 1 Marzo non dura soltanto un giorno. Gli auguri si fanno gli ultimi tre giorni di febbraio, cioè gli ultimi giorni dell’anno, e si va avanti fino al nono giorno di Marzo. Batter Marzo, o brusar Marzo, o ciamar Marzo significa risvegliare l’anno nuovo, la vita addormentata, perchè si ridesti.

(Dal sito "Comitato per le Belle Costumanze Venete"

Primo marzo: Nozioni storiche sul Capodanno Veneto

Il calendario Veneto affonda le radici nella notte dei tempi fra i popoli indoeuropei. La zona originaria dei Veneti era il nord dell’Europa centrale (zona Lusaziana), dove gli scavi archeologici degli ultimi 30 anni stanno confermando quello che diverse fonti antiche riportavano.

La civiltà veneta antica (venetica) sapeva coltivare, produrre il vino, allevare gli animali, scrivere, lavorare i metalli e le ceramiche, fare arte nelle case e nei monili, già attorno il 3000 Avanti Cristo.

Questa civiltà creatrice aveva come divinità principale la Dea Retia che era appunto la divinità della vita, della salute e generatrice di essa.
Non stupisce dunque che proprio quando la terra, ancora nel freddo, inizia l’attività generatrice e si prepara alla primavera, ossia nel mese di marzo, proprio allora i veneti festeggiassero la fine del vecchio anno e l’inizio del nuovo.

Attorno al 2500 A.C. iniziarono diverse migrazioni dei veneti, secondo alcuni per cause climatiche ed ambientali, secondo altri per una certa naturale espansione di una civiltà che sapeva dare molto alle altre senza bisogno di far guerra. Essi si espansero in tutte le direzioni, cosicché sono di origine indoeuropea anche le popolazioni dell’est come dell ovest fino all’odierno Iran.

Verso sud essi si stanziarono anche nell’Anatolia, e successivamente, intorno al 1200 A.C., a seguito della guerra di Troia da cui Antenore fu salvato, si stanziarono nell’alto Adriatico, fondando Padova e altre Città.

Forse perché i romani ebbero come capostipite Enea, un discendente di Antenore, anche essi usavano il calendario indoeuropeo con inizio a marzo, ma tuttavia esso non rispondeva bene alle loro necessità dato che era di originario di luoghi soggetti all’inverno artico.
Alcuni sostengono che per loro l’anno iniziasse a marzo e fosse intitolato a Marte, ma secondo la mitologia romana arcaica, quella più antica, Marte era appunto il dio della natura, della fertilità, della pioggia e dei tuoni e fu solo successivamente, in età classica , che divenne il dio della Guerra.

Comunque fosse, ancora oggi il calendario risente dell’impronta indoeuropea, per cui a partire da Marzo, il mese della rinascita, si contano i dieci mesi, di cui il settimo (settembre), l’ottavo (ottobre), il nono (novembre) e il decimo (dicembre) conservano ancora il ricordo. Il quinto (Luglio ) e il sesto (Agosto ) furono poi intotalati a Julius e ad Cesare Augustus. Gennaio e Febbraio furono aggiunti con varie riforme per dare conto al ciclo delle stagioni che più a sud di dove nacque è diverso nei tempi della luce .

Così, anche nella millenaria Serenissima Repubblica l’anno cominciava il 1 Marzo e Gennaio e Febbraio erano gli ultimi mesi dell’anno .
Nel 2006 venti comuni della pedemontana Berica hanno spento le luci per ore per offrire lo spettacolo di mille falò del Brusamarzo, che hanno bruciato l’anno che se ne va. Il “battere Marzo” è tuttora diffuso in tutto l’Altopiano d’Asiago, ma anche nel Padovano e nel Trevigiano, oltre alle feste locali per “ciamar Marzo” .

Il “Comitato per le Belle Costumanze” continua l’opera del suo fondatore, Bepin Segato.
La festa per il Capodanno del 1 Marzo non dura soltanto un giorno. Gli auguri si fanno gli ultimi tre giorni di febbraio, cioè gli ultimi giorni dell’anno, e si va avanti fino al nono giorno di Marzo. Batter Marzo, o brusar Marzo, o ciamar Marzo significa risvegliare l’anno nuovo, la vita addormentata, perchè si ridesti.

(Dal sito "Comitato per le Belle Costumanze Venete"

venerdì 6 febbraio 2009

Morto a 90 anni Manlio Cortellazzo

Lutto nel mondo della cultura e dell'università

Venerdì l'alzabara nel Cortile Antico del palazzo del Bo e poi i funerali nel Tempio della Pace

È morto all'età di 90 anni Manlio Cortelazzo, insigne studioso padovano, decano dei dialettologi ed etimologisti italiani. Il suo ultimo intervento pubblico era stato a Rovigo, il 13 aprile 2008, al convegno in ricordo di Bruno Migliorini, uno dei suoi maestri.

I funerali si terranno, secondo il rito accademico, venerdì nel Cortile Antico del palazzo del Bo con la cerimonia dell'alzabara. Seguirà il rito religioso nel Tempio della Pace, mentre la tumulazione è prevista a Galzignano Terme.

Cortelazzo era professore emerito di Dialettologia italiana all'Università di Padova; autore di centinaia tra volumi e saggi in riviste scientifiche, italiane ed estere, il suo nome è legato soprattutto al "Dizionario etimologico della lingua italiana", pubblicato da Zanichelli e curato nella prima edizione assieme a Paolo Zolli.

Un suo altro merito è la promozione degli studi dialettologici negli anni Settanta, quando dirigeva il Centro di Studio per la Dialettologia Italiana del Cnr. Lucido e operoso fino alla fine, ha dato alle stampe, nel 2007, il "Dizionario veneziano della lingua e della cultura popolare nel XVI secolo" (Limena, 2007) mentre nel 2008 ha pubblicato il volume "Metodi statistici applicati all'italiano".

(da "Il Mattino di Padova")

martedì 27 gennaio 2009

Da "Il Gazzettino", legge sugli idiomi storici veneti del FVG

Giovedì 22 Gennaio 2009,
Trieste

Trasformare l'Arlef da agenzia regionale per la lingua friulana a una sorta di agenzia linguistica generale deputata a occuparsi anche della tutela e della valorizzazione dei dialetti e degli idiomi veneti del Friuli Venezia Giulia. E' quanto prevede la proposta di legge firmata dal capogruppo dei Cittadini-Italia dei Valori Piero Colussi, sostenuta anche da Sinistra Arcobaleno e gradita al Pd che la sta vagliando.
I dialetti venetofoni sono molto più diffusi nel Friuli Venezia Giulia di quanto si creda. Non c'è solo il litorale (da Muggia a Marano) - è stato detto ieri - ma lo stesso centro di Udine, dove tradizionalmente i ceti più agiati si esprimevano più in veneto che in friulano. Colussi chiarisce però che il livello di tutela non sarebbe lo stesso del friulano: non si prevedono interventi né nell'insegnamento scolastico né nella toponomastica. Si pensa piuttosto alla protezione di un patrimonio che secondo Roberto Antonaz (Sinistra Arcobaleno) «è non solo della regione ma di tutta l'umanità».
Tutelare dunque in modo diverso gli idiomi venetofoni, tra cui il bisiaco e il triestino – questa la filosofia che emerge dall'arco di Intesa Democratica. Ed evitare sperperi e contrapposizioni: di qui la proposta di non creare un'altra Agenzia. «Non è tempo di fare doppioni. In più ampliando l'Arlef – spiega Colussi – si possono superare quelle barriere culturali che appartengono a un passato da non incentivare», se è vero come ha rilevato il suo collega triestino Alunni Barbarossa che «la civiltà di un popolo si misura sulla tutela delle culture del passato». I nomi che incarnano questa civiltà sono tanti e di terre e tempi diversi: dal gradese Biagio Marin, al pordenonese Gianmario Villalta, al bisiaco Ivan Crico, al triestino Claudio Grisancich.
La proposta Cittadini-Idv-Sinistra Arcobaleno - che lascia vuota la casella relativa ai finanziamenti - è la terza sul tappeto del Consiglio regionale: due analoghe sono già state presentate dal centrodestra, primi firmatati rispettivamente Piero Camber (Pdl) e Federico Razzini (Lega Nord). La soluzione più probabile, secondo Colussi, è che si trovi una sintesi in sede di comitato ristretto, ma Antonaz non è fiducioso sulla disponibilità della maggioranza: «C'è in loro un atteggiamento diverso, quello di chi vuole fare degli idiomi locali un elemento di differenza, che crea muri e distanze».
L'esigenza di proteggere i dialetti si sta però diffondendo. Da tempo l'Associazione Armonia raccoglie firme per la tutela del dialetto triestino proponendosi a tutti gli interlocutori politici senza distinzione di schieramento e il Consiglio comunale di Ronchi già nel 2007 aveva approvato all'unanimità un ordine del giorno a favore della tutela della bisiacaria. Culture diverse, ma non meno importanti, che talvolta riscuotono apprezzamento nell'estero lontano. Come ricorda Crico, il gradese Biagio Marin è tradotto anche in Cina, a differenza di tanti autori in italiano.
P.P.

domenica 25 gennaio 2009

Ettore Busetto, poeta nel veneto pordenonese

ETTORE BUSETTO


Ettore Busetto (Pordenone 1909 - 1978) visse e lavorò a Pordenone divenendo una delle figure più rappresentative e più ricordate della città, anche a distanza di trent'anni dalla scomparsa. Fu impiegato all'Elettrica Trevigiana (oggi Enel) quindi nell'azienda commerciale da lui fondata. Negli anni 20 il primo contatto con il teatro, interesse che insieme alla poesia lo accompagnò per tutta la vita. A una prima esperienza nella filodrammatica del Circolo giovanile “Beato Odorico” segue la partecipazione nella filodrammatica del Dopolavoro che esordisce nel 1932. L'anno successivo il complesso consegue il primo premio al terzo concorso tra le filodrammatiche del Friuli con un'opera che vide Ettore Busetto protagonista. Nel 1940 viene chiamato a dirigere la filodrammatica del Dopolavoro del Cotonificio Veneziano. Esperienza che chiuderà; la sua partecipazione in ambito teatrale (ci ritornerà solo solo per declamare qualche lirica). L'amore per il teatro però non si esaurisce nel poeta che scrive un atto unico: "Le strade della vita". Nel 1949 fonda la Propordenone della quale accetta la direzione solo nel 1957, per un anno, durante un periodo di difficoltà per l'istituzione. Tra i molteplici suoi impegni sociali si ricorda il sostegno dato alla costituzione dell'Università popolare (poi circolo Humanitas), della filodrammatica (poi Gruppo Teatro), e la promozione della Rassegna di prosa. Nel 1975 riceve il cavalierato della Repubblica e nel 1976 il premio San Marco. Nel 1948 pubblica, cedendo alle affettuose insistenze di amici e ammiratori, pubblica "La Bossina” (ed. Cosarini, 1948). Nel 1970 è la seconda edizione de “La Bossina" (Propordenone, 1970) rimaneggiata rispetto alla precedente. Quattro anni più tardi il volume "I sentieri dell'infinito" (Propordenone, 1974). Altre liriche hanno sono state pubblicate su giornali e riviste locali riscuotendo un notevole successo.

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QUI DI SEGUITI SI RIPORTA UN INTERESSANTE TESTO SU ALCUNE TIPICHE ESPRESSIONI DELLA PARLATA PORDENONESE
DI CUI BUSETTO FU GRANDE ESTIMATORE E RAFFINATO INTERPRETE


Bacàn, Maràntega, Scarampàna

Tipiche espressioni del dialetto pordenonese


di Mario Sartor Ceciliot


1. LA FRASCA

Prima di trattare il tema specifico di questa dissertazione, conviene impostarlo adeguatamente, poiché non costituisce un problema isolato ma va studiato piuttosto come uno dei tanti mezzi di comunicazione.
Per raggiungere questo scopo, illustreremo brevemente la personalità e l’opera di Ferdinand De Saussure (l857-l9l3), un linguista svizzero che, tra gli anni 1906-1911, dettò lezioni a Ginevra, le quali vennero raccolte dai suoi allievi e pubblicate nel libro Corso di linguistica generale. Quest’opera è il punto di partenza degli aspetti più significativi della linguistica contemporanea, specialmente dello strutturalismo.
Uno dei concetti importanti proposti da De Saussure è quello di segno, tecnicismo che designa la “combinazione del concetto e dell’immagine”, ossia di un significato ed un significante. Segno è inoltre qualsiasi sistema visuale di comunicazione, in modo speciale della scrittura ma anche dei vari codici di comunicazione dei quali può servirsi l’uomo, per trasmettere un messaggio. Esempi: la fumata bianca o nera, durante il conclave per l’elezione del Papa, per annunciare l’esito positivo o negativo della votazione; il saluto militare, portando la mano sulla fronte (in origine, quando due militari di bandi contrari volevano entrare in trattative, per dimostrare le loro intenzioni pacifiche, sollevavano con la mano destra la visiera dell’armatura che copriva il viso); il sistema del quale si valgono i marinai per trasmettere messaggi, per mezzo di bandierine; la moderna segnaletica stradale; moltissimi stratagemmi dei quali si vale la pubblicità commerciale o ideologica.
Dell’insieme dei segni dei quali si serve l’uomo per trasmettere messaggi si occupa la semiologia (nome proposto da De Saussure, derivato dal greco semeiôn, “segno”), la quale studia la vita dei segni nel seno della vita sociale. La linguistica non è altro che una parte di questa scienza generale.
Oltre ai sensi dell’udito e della vista, che sono i più importanti, l’uomo può servirsi del tatto, del gusto e dell’olfatto. Per il tatto citiamo la scrittura Braille per i ciechi, formata da punti in rilievo simboleggianti le lettere dell’alfabeto, le quali si decifrano passando i polpastelli sul foglio.
Del senso del gusto si è valsa la cultura gauchesca in Argentina, per trasmettere segretamente messaggi conosciuti solo dagli iniziati. Quando la chinita, la ragazza, serviva al gaucho, il mandriano delle pampe, un mate amargo (un’infusione di foglie di Ilex paraguayensis) senza zucchero, voleva dichiarare amore all’uomo che era giunto al suo rancho. Viceversa, se il mate era dolce equivaleva a “indifferenza” o “rifiuto”.
Volendo, si potrebbero trasmettere messaggi anche con l’olfatto, ossia con gli odori o profumi, stabilendo d’antemano il significato che si vuol dare ad ognuno di essi.
Dopo questa premessa, risulterà più facile comprendere come la parola frasca (in friulano fras’cje) al significato primitivo di “ramo verde con tutte le foglie”, abbia aggiunto quello di “insegna di osteria di campagna, dove si vende vino”. Da lì deriva il detto “il buon vino non ha bisogno di frasca”, cioè il buon vino ed in generale le cose che valgono non hanno bisogno di pubblicità.
Fino agli anni ottanta circa, la frasca designava la casa rurale dove si vendeva vino di produzione propria. Veniva chiamata così, perché all’esterno dell’edificio si metteva come insegna una frasca, per pubblicizzare il prodotto.
Nell’interno della proprietà rurale si disponevano delle tavole rustiche, sia all’aperto, sia sotto tettoie, dove si serviva vino come nelle osterie. Per maggior chiarezza, a volte si metteva un cartello con la scritta Frasca. I clienti si sedevano accanto a lunghe tavole e potevano chiedere il vino della fattoria, a molto buon prezzo, il quale veniva calcolato in base al numero delle persone che vi partecipavano el il tempo durante il quale rimanevano nel locale.
Mèter su frasca significava “aprire un’osteria in campagna” secondo le modalità sopra descritte. Inoltre si usava mettere una frasca sopra un edificio in costruzione (casa, stalla, ecc.) dopo che si era collocato il tetto. Con questo stratagemma, gli operai richiedevano al proprietario dell’edificio che offrisse un banchetto nell’interno dello stabile. Questa pratica era detta far l’incovo.
Non solo in Italia ci si serviva della frasca come insegna pubblicitaria, poiché anche in Spagna venne utilizzata nei secoli scorsi. Un ramo (ossia una frasca) esposto all’esterno di una casa, significava che lì funzionava una specie di locanda, dove si serviva da mangiare e da bere. E, come dice la canzone degli alpini: “E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, oh bella mora, se vuoi venire è questa l’ora di far l’amor”. Quindi ramera (derivato di rama) oltre a significare locandiera, con il tempo divenne “donna che mantiene facilmente rapporti sessuali con gli uomini”, ossia “prostituta”.
Come si vede, tutto il mondo è paese.

2. LA OMOFONIA DI BACÀN “BACCANO, STREPITO” E BACÀN “CONTADINO BENESTANTE”

Gli omofoni sono segni che rappresentano uno stesso suono. Esempio la c- di cuore e la q- di quota. Omofone sono le parole che hanno lo stesso suono ma significato diverso. Omofono è una parola formata dal greco homós, “uguale”, “simile” e phòno-, derivato da phoné, “suono”, “voce”. Esempi di omofonia in italiano: fiera, “belva” e fiera, “mercato”; fòro, “apertura” e fòro, “centro della vita romana”; le locuzioni da canto, “per cantare” e d’accanto, “vicino, al lato”.
Esempi di omofonia si riscontrano in tutte le lingue ed anche nei dialetti che sono pure delle lingue con minore importanza letteraria e sociale.
L’ omofonia può indurre in errore coloro che non hanno molta familiarità con l’etimologia, ragione per cui qualcuno può pensare che bacàn, “baccano, strepito” e bacàn, “contadino benestante” possono avere la stessa origine.
Bacàn con il significato di “strepito”, deriva da “baccanale”, festa chiassosa e orgiastica in onore di Bacco, il dio del vino. Nell’antichità erano famose le baccanali, che degeneravano facilmente in orge rumorose. Quindi quando diciamo no stè far bacàn, si vuole raccomandare di “non fare chiasso” che ha lo stesso significato di “no stè far bordèl”. E sbacanada è una risata fragorosa”.
Il secondo bacàn, invece, salvo l’omofonia, non ha nulla in comune con il primo. Può significare: “Terratenente che lavora la propria terra” oppure “contadino benestante che vive esclusivamente dei prodotti dell’ attività agricola”. Si tratta di una parola che i veneziani hanno preso dai turchi della penisola Balcanica (e più esattamente dalla Dalmazia), la quale nella loro lingua significa “contadino che porta al mercato i prodotti della propria terra”. Quindi: i zè una famèia de bacàni, significa “è una famiglia di contadini benestanti”.
In una poesia del poeta pordenonese Ettore Busetto 1 appare la parola bacanoto, con il significato di “riccaccione”. Da’n musso bacanòto se xe recà ‘n agnelo, un agnello si è recato da un asino alle dipendenze di un ricco terratenente.
Bacàn passò dal veneziano al genovese, con il significato di “padrone della nave”, quindi “persona ricca”. A loro volta i genovesi portarono questa parola in Argentina, specialmente a Buenos Aires, nel famoso quartiere popolare della Boca (ossia la “bocca” o “inizio” del piccolo fiume Riachuelo, affluente del Rio de la Plata), dove i genovesi continuarono a svolgere attività marinare. Questa parola si arricchì di nuove connotazioni semantiche: “capo”; “uomo ricco che sfoggia la sua ricchezza, di vita facile, di bella presenza”, quindi una specie di play boy “ante litteram”.
Bacàn inoltre in Argentina, significa “uomo generoso con le donne, che può permettersi di pagarle o di colmarle di regali”. Ed il femminile bacana designa la donna di facili costumi che convive con qualche bacàn, come lo dimostra la strofa di un famoso tango: “Ahora vas con los otarios a pasarla de bacana/ a un lujoso reservado del Petit o del Julién…” (traduzione: “Ora vai con i semplicioni, che possono essere ingannati facilmente, a qualche lussuoso ristorante o caffè di attività ambigue per coppie licenziose”. In un altro tango, il giovane che ha perso l’amore della sua ragazza, si sfoga dicendole pelandruna abacanada, ossia fannullona che te la intendi con i ricchi viziosi”. 2
Come si vede, le parole emigrano con gli uomini da un paese ad un altro, vanno soggette a molte vicende ed a molte trasformazioni fonetiche, morfologiche e semantiche che le rendono incomprensibili ai parlanti del luogo di origine.

3. VERDURE SPONTANEE: Il “GRISOL”

Quando si parla di verdure si pensa specialmente alle piante coltivate negli orti. Esistono inoltre alcune piante che crescono spontaneamente e che, in altri tempi, venivano raccolte per le loro proprietà culinarie.
Una di queste piante è conosciuta nel dialetto di Pordenone con il nome di grìsol, in friulano grisulò 3. Il corrispondente nome italiano è silene (Silene angustifolia o inflata, genere delle cariofilacee). E’ molto comune non solo nelle campagne ma anche nei fossi e lungo i margini delle strade. Ha foglie opposte, argentate o grisacee, che spiegano l’origine popolare del nome, fiori di diversi colori, calice rigonfio, frutto a capsula. I germogli vengono raccolti in primavera e si mangiano specialmente con il riso; sono graditi per il loro sapore dolciastro.
Le capsule fresche, in forma di bubbolini, venivano usate dai ragazzi come divertimento, facendole scoppiare sulla fronte o sul palmo della mano, e per questo motivo, in altri dialetti veneti, vengono chiamate s’ciopète.
Il nome silene appare anche nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, e silena in portoghese). Deriva dal latino Silenus, che a sua volta lo ha preso dal greco Silenòs, nome di un personaggio mitico, Sileno, precettore di Dionisio o Bacco, rappresentato come un vecchio obeso o panciuto.
In alcuni dialetti spagnoli questa pianticella viene designata con il nome conejera (conigliera) poiché il movimento delle capsule è visto come un gruppo di coniglietti che scorrazzano agilmente.
Tutte queste creazioni semantiche dimostrano che la fantasia non è unicamente una prerogativa dei poeti, poiché anche gli umili popolani sono dotati di questa facoltà.

4. PERSONIFICAZIONI POPOLARI

Personificazione è l’atto o effetto del personificare, cioè rappresentare in forma di persona, qualcosa di astratto, ossia incarnare, dare forma umana (od anche animale e vegetale) ad un concetto.
Tutte le religioni politeiste ed in modo speciale quelle dell’antica Grecia e di Roma, ci offrono numerosi esempi di personificazione. Eccone alcuni: Giove (Zeus) è la personificazione del capo famiglia e quindi dell’autorità massima. Apollo, immaginato come un giovane di straordinaria bellezza, simboleggiava l’arte ed in modo speciale la musica e la poesia. Venere (Afrodite) invece era rappresentata come una donna bellissima e sensuale, e quindi era il simbolo dell’amore sessuale, della fecondità, dalla quale scaturisce la vita. Marte (Ares) simboleggiava la guerra. Mercurio (Ermes) era il messaggero degli dei e veniva rappresentato con le ali alle spalle ed anche ai piedi, per indicare la velocità delle comunicazioni e del commercio.
Ci sono inoltre altre personificazioni che non appartengono in rigore al mondo classico dell’antichità, bensì a epoche posteriori della cultura classica. Ne illustreremo solo alcune.

La fata
La parola latina fatum significa “predizione, oracolo, vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatali vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatalità, fato”. Si tratta quindi di concetti astratti che vennero personificati nella parola femminile singolare fata (portoghese fada, spagnolo hada, francese fée, inglese fairy, tedesco Fee)4.
Ci sono delle iscrizioni latine nelle quali fata significa “dea del destino” Le fate quindi furono immaginate come dee dotate di un potere soprannaturale sui destini umani.
Generalmente le fate sono raffigurate come donne giovani, belle, buone, sempre disposte a fare del bene; ma ci sono anche le fate malvage, secondo certi racconti infantili.
Per estensione, fata si dice di una donna di grande bellezza e di numerose virtù. Esempio: La fata dei poveri.

La befana
Befana è una parola che originariamente appare nei dialetti dell’Italia Settentrionale e deriva dal latino (e)piphan(i) a, derivato a sua volta dal greco epipháneia (hierá), le feste dell’apparizione, ossia della manifestazione della divinità di Gesù, detto il Cristo. La consonante -p- (occlusiva sorda intervocalica) si è trasformata in -b- (occlusiva sonora), fenomeno proprio dei dialetti dell’Italia Settentrionale 5. Poi la e- iniziale è caduta. Quindi abbiamo la forma attuale befana.
In occasione dell’Epifania, i Re Magi portarono al bambino Gesù, in dono: oro, incenso e mirra. Per ricordare questo fatto narrato dall’evangelista Matteo (2, 1-12), è invalsa l’usanza di fare dei doni ai bambini nel giorno di questa festività. E sono proprio i bambini di tenera età che “concretizzano”, per così dire, i fatti, le azioni ed i concetti astratti. Perciò la Befana venne raffigurata come una vecchia benefica che s’introduce per il camino del focolare e porta loro dei doni durante la notte dell’Epifania. Befana di conseguenza passò a designare i regali stessi. Ma dato l’aspetto vecchio di questo personaggio, a volte si aggiunge il significato peggiorativo di “donna vecchia e brutta”.

La maràntega
Il primo significato di maràntega nei dialetti veneti è “incubo”. Si tratta di una parola composta, il cui primo elemento è mara (derivato dall’alto tedesco), “incubo”. Il secondo elemento è antola che va associato al veneziano obsoleto àntola, “incubo”. Si tratta quindi di una superposizione di due parole di diversa origine ma con lo stesso significato 6.
Per estensione si dice maràntega ad una donna vecchia e brutta. Vedasi sopra il significato peggiorativo di “befana”. Inoltre si applica pure al temporale. Esempio: Vien su la maràntega, si avvicina la burrasca, preceduta da lampi e tuoni.

La fràcola
La fràcola è l’incubo, ossia il senso di affanno e di apprensione provocato da sogni che spaventano e angosciano. È l’equivalente del francese cauchemar, parola composta di due elementi; il primo, cauche, deriva dal latino calcare, “stringere, pigiare, torchiare”, analogo al verbo dialettale fracar; il secondo elemento mar deriva dall’alto tedesco mare, “strega” 7.
La fràcola viene raffigurata come una donna cattiva, ossia una strega che si diverte saltando sul petto delle persone, dando loro la sensazione di soffocamento. Si tratta perciò della personificazione della cattiva digestione che provoca sensazioni sgradevoli al dormiente.

La mare de San Piero
La mare de San Piero designa i temporali piuttosto violenti che si producono intorno alla festa di San Pietro, 29 giugno. Questo fenomeno atmosferico ha dato origine al proverbio “Co bròntola la mare de San Piero, brusa l’ulivo e impissa el cero”.
I Vangeli non parlano della madre di San Pietro, bensì della suocera dell’apostolo che fu sanata da Gesù, e non le si attribuiscono poteri malefici. Ci si chiede quindi come potè sorgere la leggenda popolare che diede questa designazione al fenomeno atmosferico proprio dell’estate.
Come si è detto a proposito di fràcola, la parola dell’alto tedesco mara, “incubo” venne confusa o si sovrappose a mare, “madre”, derivata dal latino matrem, madre, nome comune di persona. Perciò la personificazione del fenomeno atmosferico risultò facile.
Nel folklore friulano ci sono molte leggende e favole relative alla Mari di San Pieri, la quale viene descritta come una donna cattiva e molto invidiosa (une invidiosate), di lì il detto “invidiôs come la mari di San Pieri”.
In questo caso si è passati dall’idea sgradevole del temporale che reca danni, a quella altrettanto sgradevole di “rancore” e “astio” “invidia” per la fortuna e felicità o le qualità altrui, spesso uniti al desiderio che tutto ciò si trasformi in male.

Scarampàna
Scarampàna deriva da carampàna, sostantivo femminile, al quale si è aggiunto il prefisso s- con valore intensivo o rafforzativo.
Carampàna, a sua volta, deriva dal nome di una calle di Venezia, chiamata “Cà Rampana”, ossia casa dei Rampàni, nome dei proprietari. In detta casa alloggiavano le prostitute vecchie e brutte che ormai non esercitavano quel triste mestiere o tuttalpiù si prestavano come ruffiane.
Cà Rampàni era un luogo fuori mano, poco accogliente e, per ovvie ragioni, lontano alle chiese. Quindi una vecia carampàna prese il significato di “vecchia brutta e decrepita”. La s- iniziale ha un valore intensivo.
Dall’idea sgradevole di bruttezza si passa a quella ugualmente sgradita di “rimprovero”. Di lì deriva il detto: “Me ga tocà a mi sentir tante scarampiàne”, è toccato a me sentire tanti rimproveri (o sgridate, rabbuffi, reprimende)8.


NOTE

1) ETTORE BUSETTO. La Bossina, a cura di Giosuè Chiaradia, Propordenone, Dicembre 1970, p.149.
2) GIOVANNI MEO ZILIO – ETTORE ROSSI. El elemento italiano en el habla de Buenos Aires y Montevideo. Firenze, Valmartina Editore, 1970, p.51).
3) GIULIO ANDREA PIRONA – ERCOLE CARLETTI – GIOV. BATT. CORGNALI. Il Nuovo Pirona. Udine, Arturo Bosetti Editore e Stampatore, 1935.
4) O. BLOCH et W. von WARTBURG, Dictionnarie étymolgique de la langue française. Paris, Presses Univeritaires de France,1960.
5) CARLO BATTISTI – GIOVANNI ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze, 1950 e segg.
6) G. F. TURATO – D. DURANTE, Vocabolario etimologico veneto-italiano, Battaglia Terme (Padova), Casa Editrice “La Galiverna”, 1978.
7) O. BLOCH, op.cit.
8) G. F. TURATO, op.cit.

Il nuovo numero di Bisiacaria 2009

Acb, presentata la 26ª edizione di Bisiacaria
(Messaggero Veneto — 13 gennaio 2009 pagina 08)

MONFALCONE.
E’ arrivato alla 26ª edizione "Bisiacaria", numero unico edito dall’Associazione culturale bisiaca, presentato al caffè Inglese. Presenti all’incontro, oltre a un folto e attento pubblico, la presidente dell’associazione Acb, Marina Dorsi, il direttore responsabile, Fabio Del Bello, Fabio Favretto, curatore delle manifestazioni del caffè Inglese, e il vice-sindaco del Comune di Monfalcone, Silvia Altran, che ha valutato positivamente l’attività dell’associazione bisiaca e la realizzazione di questo volume, che si inserisce nell’onda delle ricorrenze del centenario dello stabilimento navalmeccanico di Panzano. Ben 168 le pagine del volume edizione 2009, che si dividono tra saggi storici, ricerche, memorie e un bel corredo iconografico, con scritti in bisiaco in prosa e in versi. Hanno attivamente partecipato alla realizzazione del volume, pubblicato grazie ai contributi della Regione, Carlo D’Agostino, Rino Romano, Alessandro Turrini, Andrea Bruciati, Fabio Favretto, Fabio Del Bello, Massimo Palmieri, Marina Righi, Marina Dorsi, Marco Tardivo, Mario Furlan, Ivan Crico, Amerigo Visintini, Livio Glavich, Pino Scarel, Marina Zucco, Cesare Zorzin e Mauro Casasola. Gli interventi parlano di storia dell’aeronautica, della costruzione dei sommergibili, del cantiere navale ricordando con solidarietà gli operai della Grande fabbrica monfalconese nei momenti difficili della crisi negli anni ’80, delle memorie recuperate dagli studenti delle scuole superiori della città. Viene proposta anche la rilettura del romanzo “La tuta gialla”, di Nordio Zorzenon, edita nel 1971, e vari testi in bisiaco. Correda il volume l’indice analitico di “Bisiacaria” dal 1983 al 2008 che, attraverso macro-aree tematiche, permetterà di ricercare autore, titolo, pagina e annata di ogni articolo pubblicato in 25 anni; un modo per rendere anche merito a tutti i collaboratori che in questo lungo periodo hanno contribuito al miglioramento della qualità della rivista. La copertina riproduce il Cantiere navale di Monfalcone nel 1955, acquerello dell’architetto triestino Mario Zocconi, gentilmente concesso dalla famiglia.

sabato 24 gennaio 2009

Il poeta di Rovigno Ligio Zanini nel ricordo di Claudio Magris

LIGIO ZANINI, IL POETA E IL GABBIANO FILIPPO
di CLAUDIO MAGRIS

Il primo luglio, all' ospedale di Pola, stroncato a sessantasei anni da una malattia piu' forte della sua sanguigna e indomita vitalita' che aveva resistito a tremende violenze della storia, e' morto Ligio Zanini, un poeta di grande originalita' e freschezza creativa, di cui soltanto pochi, in Italia . fra i quali Franco Loi e Vanni Scheiwiller . si erano veramente accorti. Con lui si e' spenta una voce che ha espresso . in assoluta autonomia e senza alcuna chiusura locale, ma con totale apertura al mondo . il dramma dell' Istria nell' ultimo mezzo secolo, un dramma nel quale si sono rispecchiati, su una scala geograficamente ridotta ma storicamente esemplare, le tensioni, le lacerazioni, i disinganni, le contraddizioni, le contese del mondo. Prima di essere poeta nella sua affascinante lirica, Ligio Zanini lo e' stato nella vita, che egli ha vissuto con passione, ingenuita' , onesta' incorruttibile, coraggio e con una straordinaria capacita' di incantarsi per le cose nonostante le ingiustizie e le sofferenze patite e di pagare senza batter ciglio il prezzo delle proprie illusioni. Nato a Rovigno, l' incantevole citta' istriana, nel 1927 e incarnazione . nel suo modo di essere e di sentire, nella musica della sua poesia e della sua vita . di quella plurisecolare civilta' veneta, della sua gentilezza e robustezza, Zanini e' stato anti fascista, accesamente avverso alla persecutoria politica anti slava del fascismo italiano. Alla fine della seconda guerra mondiale, ha creduto nella Jugoslavia titoista ossia nel comunismo quale superamento dei dissidi nazionali in una piu' alta fraternita' . Nei tragici momenti del dopoguerra, quando si decideva il destino dell' Istria e le commissioni internazionali arrivavano in quelle terre per cercare di capirne la composizione etnica, Zanini, come mi raccontava egli stesso, pur essendo italiano era fra coloro che gridavano in croato "Vogliamo Tito" durante le visite di quelle delegazioni. Poco dopo l' esodo, che vide decine di migliaia di italiani andarsene dall' Istria, Zanini si accorse ben presto che l' insegna dell' internazionalismo mascherava, in quel momento di riscossa, un nazionalismo slavo indiscriminatamente violento verso gli italiani. Egli stesso conobbe l' inferno del lager di Goli Otok, l' isola nella quale il governo jugoslavo, dopo la grande rottura con Stalin e nel timore di colpi di Stato stalinisti, fece deportare, sottoponendoli a violenze e sevizie d' ogni genere, avversari veri e presunti di ogni tendenza, anche comunisti libertari come lui. Uscito dopo tre anni da quell' incubo, Zanini visse, specialmente all' inizio, fra varie difficolta' ; avrebbe potuto recarsi in Italia, dove avrebbe avuto un' esistenza diversa, ma non lo fece perche' , come mi disse, non gli pareva giusto mangiare nel piatto in cui aveva sputato, e anche perche' sentiva il dovere di restare, di rendere testimonianza della sua civilta' e della sua gente la' dove era piu' difficile, nella desolata situazione dell' Istria, certo piu' dura, per gli italiani rimasti, della pur ben dura condizione degli esuli che l' avevano abbandonata. Dopo aver ricoperto per alcuni anni vari incarichi didattici presso le scuole italiane . era infatti maestro elementare . si ritiro' , in totale indipendenza, facendo il pescatore e sopravvivendo grazie a cio' che pescava uscendo ogni mattino con la sua barca in quel mare rovignese e fra le sue isole di una bellezza assoluta e dedicandosi alla poesia. Le sofferenze patite non avevano scalfito la sua serenita' , la sua fanciullesca freschezza, ne' avevano turbato il suo sentire sovranazionale: avverso al nazionalismo slavo, sino al punto di dimettersi nel 1990 dall' Associazione degli scrittori della Croazia quando essa aveva assunto la denominazione etnicamente restrittiva "Associazione degli scrittori croati" e difensore della identita' italiana, Zanini e' rimasto estraneo a ogni risentimento nazionale italiano e ha visto nel libero dialogo fra italiani e slavi il suo mondo. Un anno fa, sono stato in barca con lui, a Rovigno. Mentre remava o attraccava, guardavo i suoi gesti forti e tranquilli, lo sguardo azzurro e fermo plasmato dal mare, e pensavo che quell' uomo, quel pescatore, era passato interiormente indenne attraverso delusioni, sofferenze e attraverso le violenze fisiche del lager di Goli Otok, che egli ha descritto nel suo romanzo Martin Muma, del 1990, edito dalla rivista La Battana di Fiume, affresco epico di quella sua storia, che e' insieme storia corale della sua gente e apologo di speranze, utopie e delusioni di un movimento di portata mondiale. Da anni, Zanini viveva sul mare, con le vele, i pesci e i gabbiani, quel gabbiano File' ipo (Filippo) col quale egli dialoga nelle sue poesie. Nelle sue liriche in dialetto rovignese . uscite in varie raccolte e di recente nel volume Cun la prua al vento, ed Scheiwiller . l' esperienza storica, la tensione morale, l' avventura nel tempo sono presenti ma fuse nel non tempo del mare, di una vita guardata faccia a faccia nella sua essenza. Quando non e' folclore vernacolo, il dialetto puo' essere un linguaggio per eccellenza della poesia, piu' resistente agli ingranaggi della rettorica. Zanini non si disinteressava certo di politica, seguiva con passione gli eventi turbinosi, pieni di speranza e di minaccia, della sua terra, ma quando gli avevano chiesto di candidarsi, aveva detto che lui, come altri suoi coetanei, apparteneva a una generazione che aveva fatto il suo tempo e che, a prescindere dai suoi meriti ed errori, doveva farsi da parte. E prendeva la barca e andava al largo, come ha fatto adesso.


(Pagina 19, 11 luglio 1993 - Corriere della Sera)


BIO- BIBLIOGRAFIA DI LIGIO ZANINI

Ligio Zanini è nato a Rovigno d'Istria il 30 settembre 1927 - morto il 1. luglio 1993 nell'ospedale di Pola stroncato a 65 anni da un male incurabile. Compì gli studi presso l'Istituto Magistrale di Pola, anche se giovanissimo partecipò alla lotta partigiana tra le file comuniste.
Dal 1947 al 1948 fu referente per le scuole italiane presso il Dipartimento all'istruzione del Comitato Popolare.
In seguito all'espulsione della Jugoslavia dal Cominform con l'accusa di deviazionismo venne chiamato, come tutti gli altri esponenti comunisti, a schierarsi o con Tito o con Stalin.
Lui, come disse in una intervista televisiva, dichiarò d'esser stato onorato d'aver combattuto con loro i nazi-fascisti, ma che d'allora in avanti avrebbe deciso soltanto con la sua testa (quindi nè con Tito nè con Stalin) e rimise la tessera del partito. Pertanto nel gennaio del 1949 fu tra i primi a subire la repressione titina, finendo incarcerato nel terribile lager comunista di Goli Otok (Isola Calva).
Venne rimesso in libertà soltanto nel 1952 e fu costretto a fare il magazziniere nel cantiere "Stella Rossa" di Pola rimanendo un sorvegliato speciale.
Grazie all'aiuto di alcuni intellettuali polesani riuscì nel 1956 ad ottenere un posto da ragioniere nell'impresa commerciale "Siana" di Pola.
Soltanto nel '59, finito il suo periodo di quarantena, gli fu consentito di dedicarsi all'insegnamento e venne mandato a Salvore con il compito di riaprire la locale scuola italiana, chiusa per decisione politiche nel 1953. A Salvore, ove rimase cinque anni, Zanini si dedicò con passione alla diffusione della cultura italiana fondandovi il Circolo Italiano di Cultura.
Tornato a Rovigno fu nuovamente costretto per vivere a dedicarsi alla contabilità commerciale. Ripresi gli studi si laureò a Pola in Pedagogia e quindi riprese anche la sua attività d'insegnante in qualità di maestro a Valle d'Istria. Ritiratosi infine dall'insegnamento ritornò a Rovigno ove si dedicò esclusivamente alle sue due passioni: la poesia e la pesca.
Membro dal 1970 dell'Associazione degli scrittori della Croazia, vi si dimise nel 1990 quando questa assunse, assecondando il nascente nazionalismo croato, il nome di Associazione degli scrittori croati.
Con la sua poesia Ligio Zanini riuscì ad emergere come la principale voce poetica dell'Istria, raggiungendo una certa notorietà anche in campo nazionale, allacciando tra l'altro una forte e durevole amicizia con il grande poeta di Grado, Biagio Marin, e con tanti altri intellettuali italiani tra cui il triestino Claudio Magris.
Da molti, come ad esempio da Bruno Maier, la sua opera viene accostata a quella di Biagio Marin, però dove nel poeta di Grado il canto si fa introspezione lirica in una visione rasserenata della vita nell'abbraccio finale di Dio, in Ligio Zanini, anche il discorso che in apparenza sembra il più introspettivo e lirico, in realtà cela nel suo fondo l'amaro destino dei rovignesi: o stranieri nella loro città o profughi per il mondo senza più il contatto ravvivante della propria terra madre.
In questa prospettiva l'unica nota rasserenante è il mare, la natura di Rovigno che, seppure anch'essa mutata, per lo meno al poeta parla lo stesso linguaggio di sempre.
Però anche la natura, i pesci, i gabbiani diventano metafora, come nella poesia "Sensa nom", della sua straziata condizione esistenziale, simbolo a sua volta di quella di tutto un popolo.
Proprio grazie a questo suo afflato universalistico la sua poesia, seppure nel dialetto istrioto di Rovigno d'Istria, riesce a superare la ristretta cerchia del bozzetto flocloristico per arrivare alle vette della vera poesia.

Bibliografia:

Moussoli a scarcaciuò, Ed. Alut, Trieste 1965
Buléistro, Scheiwiller, Milano 1966
Mar quito e alanbastro, in "Istria Nobilissima", U.I.I.F. - U.P.T., Trieste 1968
Tiera viecia-stara, in "Istria Nobilissima", UIIF-UPT, Trieste 1970
Favalando cul cucal Filéipo - In stu canto da paradéisu, N. 1 della collana Biblioteca Istriana edito a cura UIIF-UPT, dalla casa Ed. LINT di Trieste dalla Erredici di Padova 1979 con prefazione di Bruno Maier. opera che ha avuto anche una edizione in serbo-croato: Razgovor s galebom Filipom, Fiume 1983
Sul sico de la Muorto Sagonda, in "Diverse lingue", Udine 1990
Cun la prua al vento. Poesie nel dialetto di Rovigno d'Istria, prefazione di Franco Loi e una lettera di Biagio Marin, nella collana Libri Scheiwiller, Milano 1993.
A queste opere di poesia vi è da aggiungere il romanzo autobiografico:

"Martin Muma" edito a cura della rivista letteraria "La Battana", nn. 95-96 Fiume 1990

ELIGIO ZANINI (Rovigno d'Istria, 1927-1993) was born in Rovigno (Istria) and trained to be a teacher at the Istituto Magistrale di Pola. As a very young man, he fought as a partisan against the Fascists; in January 1949 he was one of the first to suffer repression under Tito and was imprisoned in the communist lager, Goli Otok (Isola Calva). When he was freed in 1952, he found work as an accountant. He was not allowed to return to teaching until 1959. For five years he taught in Salvore, then returned to Rovigno where he worked as an accountant to make ends meet and earned a University degree in Education at Pola before teaching in a school in Valle d'Istria and finally returning to Rovigno where he retired to write poetry in the Istriot dialect of Rovigno and to fish.

Source:

http://www.smith.edu/metamorphoses/biographiesw-z.html/

venerdì 23 gennaio 2009

Le parlate istrovenete

(da istria.net)



La storia dell'Istria nei suoi tre millenni è molto complessa. Vi è accertata la presenza dell'uomo già nel periodo paleolitico, nella preistoria. La storia conserva la memoria dell'immigrazione dei Veneti all'epoca della guerra troiana. Nel V secolo si verifica l'invasione dei Celti "gens valida et fera" come dice Appiano. Segue la conquista romana nel 177 a.C. I Romani fondarono Aquileia sulla soglia "delle porte dell'Italia" e da li iniziò ad irradiare una profonda romanizzazione.

Dunque su un substrato preromano in Istria (venetico, celtico o preindoeuropeo) si sovrappose il latino d'Aquileia. Dal latino di provincia derivano i volgari romanzi istriani: i dialetti istrioti a sud dell'Istria e un idioma di tipo friuleggiante a nord che però potrebbe anche essere non autoctono, ma importato dal Friuli. Con il crollo dell'impero romano d'occidente nel 476 iniziarono le invasioni barbariche. Si susseguono gli Ostrogoti, i Bizantini, í Longobardi, i Franchi che introdussero il sistema feudale, però non scossero la romanizzazione. Gli Slavi a partire dal VII secolo sono da considerarsi un'eccezione. L'Istria ebbe rapporti amichevoli e di simpatia con Venezia. L'Adriatico congiungeva le due popolazioni. Gli Istriani iniziarono le dedizione alla Repubblica di Venezia nel 932 con Capodistria. Nel 1420 i Veneziani posero fine al potere secolare dei patriarchi d'Aquileia. I primi estesero così la loro signoria su tutto il Veneto. Il dominio perdurerà fino al 1797.

Questo mutamento storico, il dominio della repubblica di Venezia sull'Istria, si manifesterà anche nel cambio linguistico. "Eguale mutamento aveva subito anche il volgare istriano. All'orecchio di Dante, abituato alla dolcezza della parlata toscana, il nostro volgare italico doveva suonare "di accenti aspri e crudeli". Ma col progresso del tempo, di mano in mano che i contatti con Venezia divennero sempre più frequenti ed intimi, l'influenza del dialetto veneto si fece sentire anche nei comuni istriani, ove le famiglie dei cittadini andavano a gara di avvicinarsi anche nel linguaggio alla "Dominante". Fu così che, ove maggiori furono i contatti fra le due rive dell'Adriatico o maggiore la possibilità di subirne l'influenza maggiore fu l'innesto del "veneziano" nel primitivo volgare istriano; e dalla loro reciproca fusione ed assimilazione ebbero vita varie parlate cui si scinde la nostra regione:

il ladino ritrattosi adesso al Friuli ma dominante una volta a Trieste ed a Muggia;
l'istriano che si parla a Rovigno, Dignano, Gallesano, Fasana e Valle;
i1 veneto in tutte le altre località dell'Istria". (Nota 1).
Bisogna tenere presente che, essendo stata l'Istria spopolata e ripopolata, il fenomeno del cambio linguistico è molto complesso.

Le cause principali dello spopolamento del territorio istriano sono dovute alle epidemie di peste e di malaria che decimarono la popolazione dal XIII al XVII secolo. Si ebbero in totale 41 epidemie pestilenziali; la chiamavano il "mal de la Giandussa". Incessantemente l'Istria era colpita pure da febbri malariche. La mancanza di popolazione si fece sentire anche a causa delle lunghe, ripetute ed ostinate guerre che Venezia conduceva contro i patriarchi di Aquileia, Genova, gli Ungheri, l'Austria, i Turchi, la contea di Pisino, i conti di Gorizia, gli Uscocchi. Le uccisioni di uomini erano accompagnate dalle devastazioni dei campi c dal saccheggiamento di animali. Nelle Commissioni ducali del 1375 sì legge: "L'Istria tutta può dirsi deserta". L' ultima grande epidemia infierì dal 1629 al 1631. Pola non era più una città, ma "il cadavere di una città".

Lo stato diresse l'immigrazione e la colonizzazione a partire dal 1500. Si tentò di ripopolare l'Istria con Italiani, Greci, Morlacchi, Albanesi, Montenegrini, Sloveni e Croati. Ci furono 102 momenti di colonizzazione registrati dal XV al XVII secolo.

Il ripopolamento ebbe riflessi linguistici importantissimi. Lo Czöernig studiò gli Slavi nel 1851 per incarico dell'Austria e li distinse in 17 gruppi linguistici. I nuovi coloni slavi vennero in contatto con gli abitanti delle città e la popolazione della campagna istriana divenne bilingue. "Nel meridione della penisola, dove l'elemento romanzo italiano prima del XVI secolo era predominante la colonizzazione significò l'avvio di quel processo che doveva portare alla formazione di due sfere culturali diverse e all'instaurazione tra loro di un "equilibrio" sui generis. Quando si parla di "equilibrio" tra la sfera culturale italiana e quella croata nell'Istria meridionale non s'intende sottolineare la presenza di una "validità" e di un "ruolo" uguali in ambito locale e in quello di più vasto respiro, ma innanzi tutto, il fatto dell'avvenuta impostazione di un equilibrio in senso di "acculturazione", per cui la più forte cultura italiana non riuscì ad assimilare quella più debole croata. II processo di "acculturazione" in Istria non si è concluso; i contatti e i rapporti tra "culture" etnicamente divergenti si sono mantenuti nei limiti di un "equiibrio" sui generis" (Nota 2).

L'appartenenza linguistìca dell'Istria nel secolo XVIII era costituita da tre comunità linguistiche: croata, italiana e slovena. Il processo di venetizzazione linguistica dell'Istria possiamo seguirlo nel tempo grosso modo in 3 fasi distinte.

La "prima fase" comprende alcuni secoli - dal X al XIII - nei quali Venezia in rapporti amichevoli o sconfitte con le città costiere istriane le lega a sé nel "vincolo di fedeltà". L'Istria costiera divenne politicamente veneziana e il veneziano lingua amministrativa. Ci fu una prima fase di coesistenza di due codici: quello veneziano e quello dei dialetti istriani preveneti. Sembra logico che il veneziano dal XIV al XV secolo era limitato a precise situazioni e funzioni.

La "seconda fase" di venetizzazione va dal XVI secolo alla prima metà del XIX secolo. E' in questo periodo, nel '500, che il toscano si impose come lingua nazionale sostituendo gradualmente i1 veneziano. Il veneziano divenne strumento di comunicazione elevata. Si fissò come koiné provinciale.

La "terza fase" vede l'indebolimento e la sconfitta politica ed economica della Serenissima. Il triestino, dialetto venezianeggiante, sostituì il tergestino, dialetto friuleggiante, nel XIX secolo. Nell'Istria si diffuse il modello linguistico triestino senza grosse difficoltà; quando Trieste diventa Porto Franco sostituì economicamente Venezia. "Ne1'800 il triestino divenne la guida della koinè veneta giuliana" (Nota 3). La terza venetizzazione è dunque segnata dall'interferenza del triestino sui dialetti veneti dell'Istria.

Nei primi dell'Ottocento alcune idee filosofiche innescarono una quantità di avvenimenti. Furono il Romanticismo e l'Idealismo filosofico tedesco a contrapporsi alla cultura classica greca e romana ripescando il proprio medioevo. L'Idealismo porta a pensare allo "spirito delle nazioni" (Hegel). Da questa idea scoppiano in Europa da una parte istanze demografiche, costituzionalistiche e dall'altra, l'Europa è percorsa da una tensione definita irredentistica. L'Austria doveva confrontarsi con l'irredentismo polacco, ungherese, italiano, croato. Le consapevolezze linguistiche cominciarono a fiorire da più parti. Si crearono situazioni di dinamismo conflittuale positivo. L'apporto del nuovo dinamismo del triestino si accompagnò all'espansione economica, che riaprì le grosse vie di comuncazione dell'Istria servendosi di un grosso volume di comunicazione dialettale. Nell'Istria occidentale ci fu la ricostituzione di una buona parte del continuum linguistico romanzo. Il dialetto veneziano-triestino riacquistò rapidamente tutto il suo prestigio. Gli italofoni acquistarono progressivamente terreno. I fenomeni di acculturazione e di bilinguismo non hanno implicato sempre il cambio linguistico. È proprio questa fluidità del confine etnicolinguistico che caratterizza la terza fase di venetizzazione dell'Istria.

Nel secolo XX l'Istria conobbe la stagione dei totalitarismi. L'Italia iniziò a condurre una politica di assimilazione dei croati e degli sloveni subito dopo il 1918. Si chiusero le scuole con lingua d'insegnamento croata e slovena. Dopo l'ascesa al potere del fascismo si vietò l'uso dello sloveno e del croato nell'amministrazione e nei tribunali. Si interruppe ogni attività sportiva e culturale in sloveno e croato. Vennero italianizzati quasi tutti i cognomi slavi. Tale politica già nel 1921 provocò la resistenza degli sloveni e croati. La seconda guerra mondiale e la divisione politica del territorio istriano ebbe come conseguenza l' esodo di buona parte della sua popolazione. La nuova congiuntura nazionale jugoslava esercitava una forte pressione ideologica sulla. popolazione, schierando le minoranze nazionali da una o dall'altra parte. Si arrivò cosi all'esodo massiccio degli italofoni. Oltre al continuum storico del dialetto istroveneto, qui tracciato, c'è l'ipotesi dell'autoctonia dei sistemi dialettali veneti in Istria, sostenuta dal Decarli. Questa tesi è respinta dal Crevatin, il quale sostiene che non sia scientifica. "Basti riflettere su questo banale elemento: "veneto" non equivale a "veneziano", nonostante l'uso promiscuo che si fa di queste designazioni, ed i dialetti istriani (non parlo di quelli istrioti, ovvìamente) sono di tipo scientificamente veneziano, guarda caso il dialetto di chi ha retto l' Istria tra il XIV e il XVIII secolo (Nota 4).

Note:

B. BENUSSI, L'Istria nei suoi due mìllenni di storia, Trieste, 1924,p.283.
M.BERTOSA, L'equilibrio nel processo di "acculturazìone" ìn Istria: tra interazioni e opposizioni, 1982/1983, p.282.
F. CREVATIN, "Per una storia della venetizzazione dell'Istria", Studi mediolatini e volgari, 1975, p.98.
IDEM, "Pagine di storia linguistica istriana", AMSI, vol. XXIV (1976), p. 317.
Bibliografia:
B. BENUSSI, L'Istria nei suoi due rnillenni di storia, Trieste, 1924.
M. BERTOSA, "L'equilibrio nel processo di "acculturazione" in Istria: tra interazìoni ed opposizioni',ACRS.voI.XIII (1982/83), pp. 273 -92.
G. BRANCALE-L.DECARLl, Istria, dialetti eprelstorta,Triestc, 1997.
M.R. CRRASUOLOPERTUSI "Il contributo dell'etimologia alla storia della neolatinità istriana",AMSI, voLXXXVIII (n.s.) (I99U), pp.187-251.
F. CREVATIN, "Per una storia della venetizzaziunc linguistica dell' lstria. Prospettive metodologiche per una sociolinguistica diacronica", Studi mediolatini e volgari, voLXXlll (1975), pp.59-99.
IDEM,"Pagine di storia linguistica istriana". AMSI, vol. XXIV (n. s.) (1976), pp. 39-50.
IDEM, "I dialetti veneti dell'Istria", Guida ai dialetti veneti, vol.IV (1982), pp.39-50.
D. DAROVEC, Rassegna di storia istriana. Biblioteca Annales, Koper/Capodistria, 1993.
L. DECARLI, Origine del dialetto veneto istriano, Trieste 1976.
IDEM, --Il veneto istriano, Guida ai dialetti veneti, vnLVll (1985), pp.91-125.
Fonte:

Marija Nedveš, "Il dialetto istroveneto", La Ricerca n. 31-32 settembre-dicembre 2001.