domenica 25 gennaio 2009

Ettore Busetto, poeta nel veneto pordenonese

ETTORE BUSETTO


Ettore Busetto (Pordenone 1909 - 1978) visse e lavorò a Pordenone divenendo una delle figure più rappresentative e più ricordate della città, anche a distanza di trent'anni dalla scomparsa. Fu impiegato all'Elettrica Trevigiana (oggi Enel) quindi nell'azienda commerciale da lui fondata. Negli anni 20 il primo contatto con il teatro, interesse che insieme alla poesia lo accompagnò per tutta la vita. A una prima esperienza nella filodrammatica del Circolo giovanile “Beato Odorico” segue la partecipazione nella filodrammatica del Dopolavoro che esordisce nel 1932. L'anno successivo il complesso consegue il primo premio al terzo concorso tra le filodrammatiche del Friuli con un'opera che vide Ettore Busetto protagonista. Nel 1940 viene chiamato a dirigere la filodrammatica del Dopolavoro del Cotonificio Veneziano. Esperienza che chiuderà; la sua partecipazione in ambito teatrale (ci ritornerà solo solo per declamare qualche lirica). L'amore per il teatro però non si esaurisce nel poeta che scrive un atto unico: "Le strade della vita". Nel 1949 fonda la Propordenone della quale accetta la direzione solo nel 1957, per un anno, durante un periodo di difficoltà per l'istituzione. Tra i molteplici suoi impegni sociali si ricorda il sostegno dato alla costituzione dell'Università popolare (poi circolo Humanitas), della filodrammatica (poi Gruppo Teatro), e la promozione della Rassegna di prosa. Nel 1975 riceve il cavalierato della Repubblica e nel 1976 il premio San Marco. Nel 1948 pubblica, cedendo alle affettuose insistenze di amici e ammiratori, pubblica "La Bossina” (ed. Cosarini, 1948). Nel 1970 è la seconda edizione de “La Bossina" (Propordenone, 1970) rimaneggiata rispetto alla precedente. Quattro anni più tardi il volume "I sentieri dell'infinito" (Propordenone, 1974). Altre liriche hanno sono state pubblicate su giornali e riviste locali riscuotendo un notevole successo.

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QUI DI SEGUITI SI RIPORTA UN INTERESSANTE TESTO SU ALCUNE TIPICHE ESPRESSIONI DELLA PARLATA PORDENONESE
DI CUI BUSETTO FU GRANDE ESTIMATORE E RAFFINATO INTERPRETE


Bacàn, Maràntega, Scarampàna

Tipiche espressioni del dialetto pordenonese


di Mario Sartor Ceciliot


1. LA FRASCA

Prima di trattare il tema specifico di questa dissertazione, conviene impostarlo adeguatamente, poiché non costituisce un problema isolato ma va studiato piuttosto come uno dei tanti mezzi di comunicazione.
Per raggiungere questo scopo, illustreremo brevemente la personalità e l’opera di Ferdinand De Saussure (l857-l9l3), un linguista svizzero che, tra gli anni 1906-1911, dettò lezioni a Ginevra, le quali vennero raccolte dai suoi allievi e pubblicate nel libro Corso di linguistica generale. Quest’opera è il punto di partenza degli aspetti più significativi della linguistica contemporanea, specialmente dello strutturalismo.
Uno dei concetti importanti proposti da De Saussure è quello di segno, tecnicismo che designa la “combinazione del concetto e dell’immagine”, ossia di un significato ed un significante. Segno è inoltre qualsiasi sistema visuale di comunicazione, in modo speciale della scrittura ma anche dei vari codici di comunicazione dei quali può servirsi l’uomo, per trasmettere un messaggio. Esempi: la fumata bianca o nera, durante il conclave per l’elezione del Papa, per annunciare l’esito positivo o negativo della votazione; il saluto militare, portando la mano sulla fronte (in origine, quando due militari di bandi contrari volevano entrare in trattative, per dimostrare le loro intenzioni pacifiche, sollevavano con la mano destra la visiera dell’armatura che copriva il viso); il sistema del quale si valgono i marinai per trasmettere messaggi, per mezzo di bandierine; la moderna segnaletica stradale; moltissimi stratagemmi dei quali si vale la pubblicità commerciale o ideologica.
Dell’insieme dei segni dei quali si serve l’uomo per trasmettere messaggi si occupa la semiologia (nome proposto da De Saussure, derivato dal greco semeiôn, “segno”), la quale studia la vita dei segni nel seno della vita sociale. La linguistica non è altro che una parte di questa scienza generale.
Oltre ai sensi dell’udito e della vista, che sono i più importanti, l’uomo può servirsi del tatto, del gusto e dell’olfatto. Per il tatto citiamo la scrittura Braille per i ciechi, formata da punti in rilievo simboleggianti le lettere dell’alfabeto, le quali si decifrano passando i polpastelli sul foglio.
Del senso del gusto si è valsa la cultura gauchesca in Argentina, per trasmettere segretamente messaggi conosciuti solo dagli iniziati. Quando la chinita, la ragazza, serviva al gaucho, il mandriano delle pampe, un mate amargo (un’infusione di foglie di Ilex paraguayensis) senza zucchero, voleva dichiarare amore all’uomo che era giunto al suo rancho. Viceversa, se il mate era dolce equivaleva a “indifferenza” o “rifiuto”.
Volendo, si potrebbero trasmettere messaggi anche con l’olfatto, ossia con gli odori o profumi, stabilendo d’antemano il significato che si vuol dare ad ognuno di essi.
Dopo questa premessa, risulterà più facile comprendere come la parola frasca (in friulano fras’cje) al significato primitivo di “ramo verde con tutte le foglie”, abbia aggiunto quello di “insegna di osteria di campagna, dove si vende vino”. Da lì deriva il detto “il buon vino non ha bisogno di frasca”, cioè il buon vino ed in generale le cose che valgono non hanno bisogno di pubblicità.
Fino agli anni ottanta circa, la frasca designava la casa rurale dove si vendeva vino di produzione propria. Veniva chiamata così, perché all’esterno dell’edificio si metteva come insegna una frasca, per pubblicizzare il prodotto.
Nell’interno della proprietà rurale si disponevano delle tavole rustiche, sia all’aperto, sia sotto tettoie, dove si serviva vino come nelle osterie. Per maggior chiarezza, a volte si metteva un cartello con la scritta Frasca. I clienti si sedevano accanto a lunghe tavole e potevano chiedere il vino della fattoria, a molto buon prezzo, il quale veniva calcolato in base al numero delle persone che vi partecipavano el il tempo durante il quale rimanevano nel locale.
Mèter su frasca significava “aprire un’osteria in campagna” secondo le modalità sopra descritte. Inoltre si usava mettere una frasca sopra un edificio in costruzione (casa, stalla, ecc.) dopo che si era collocato il tetto. Con questo stratagemma, gli operai richiedevano al proprietario dell’edificio che offrisse un banchetto nell’interno dello stabile. Questa pratica era detta far l’incovo.
Non solo in Italia ci si serviva della frasca come insegna pubblicitaria, poiché anche in Spagna venne utilizzata nei secoli scorsi. Un ramo (ossia una frasca) esposto all’esterno di una casa, significava che lì funzionava una specie di locanda, dove si serviva da mangiare e da bere. E, come dice la canzone degli alpini: “E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, oh bella mora, se vuoi venire è questa l’ora di far l’amor”. Quindi ramera (derivato di rama) oltre a significare locandiera, con il tempo divenne “donna che mantiene facilmente rapporti sessuali con gli uomini”, ossia “prostituta”.
Come si vede, tutto il mondo è paese.

2. LA OMOFONIA DI BACÀN “BACCANO, STREPITO” E BACÀN “CONTADINO BENESTANTE”

Gli omofoni sono segni che rappresentano uno stesso suono. Esempio la c- di cuore e la q- di quota. Omofone sono le parole che hanno lo stesso suono ma significato diverso. Omofono è una parola formata dal greco homós, “uguale”, “simile” e phòno-, derivato da phoné, “suono”, “voce”. Esempi di omofonia in italiano: fiera, “belva” e fiera, “mercato”; fòro, “apertura” e fòro, “centro della vita romana”; le locuzioni da canto, “per cantare” e d’accanto, “vicino, al lato”.
Esempi di omofonia si riscontrano in tutte le lingue ed anche nei dialetti che sono pure delle lingue con minore importanza letteraria e sociale.
L’ omofonia può indurre in errore coloro che non hanno molta familiarità con l’etimologia, ragione per cui qualcuno può pensare che bacàn, “baccano, strepito” e bacàn, “contadino benestante” possono avere la stessa origine.
Bacàn con il significato di “strepito”, deriva da “baccanale”, festa chiassosa e orgiastica in onore di Bacco, il dio del vino. Nell’antichità erano famose le baccanali, che degeneravano facilmente in orge rumorose. Quindi quando diciamo no stè far bacàn, si vuole raccomandare di “non fare chiasso” che ha lo stesso significato di “no stè far bordèl”. E sbacanada è una risata fragorosa”.
Il secondo bacàn, invece, salvo l’omofonia, non ha nulla in comune con il primo. Può significare: “Terratenente che lavora la propria terra” oppure “contadino benestante che vive esclusivamente dei prodotti dell’ attività agricola”. Si tratta di una parola che i veneziani hanno preso dai turchi della penisola Balcanica (e più esattamente dalla Dalmazia), la quale nella loro lingua significa “contadino che porta al mercato i prodotti della propria terra”. Quindi: i zè una famèia de bacàni, significa “è una famiglia di contadini benestanti”.
In una poesia del poeta pordenonese Ettore Busetto 1 appare la parola bacanoto, con il significato di “riccaccione”. Da’n musso bacanòto se xe recà ‘n agnelo, un agnello si è recato da un asino alle dipendenze di un ricco terratenente.
Bacàn passò dal veneziano al genovese, con il significato di “padrone della nave”, quindi “persona ricca”. A loro volta i genovesi portarono questa parola in Argentina, specialmente a Buenos Aires, nel famoso quartiere popolare della Boca (ossia la “bocca” o “inizio” del piccolo fiume Riachuelo, affluente del Rio de la Plata), dove i genovesi continuarono a svolgere attività marinare. Questa parola si arricchì di nuove connotazioni semantiche: “capo”; “uomo ricco che sfoggia la sua ricchezza, di vita facile, di bella presenza”, quindi una specie di play boy “ante litteram”.
Bacàn inoltre in Argentina, significa “uomo generoso con le donne, che può permettersi di pagarle o di colmarle di regali”. Ed il femminile bacana designa la donna di facili costumi che convive con qualche bacàn, come lo dimostra la strofa di un famoso tango: “Ahora vas con los otarios a pasarla de bacana/ a un lujoso reservado del Petit o del Julién…” (traduzione: “Ora vai con i semplicioni, che possono essere ingannati facilmente, a qualche lussuoso ristorante o caffè di attività ambigue per coppie licenziose”. In un altro tango, il giovane che ha perso l’amore della sua ragazza, si sfoga dicendole pelandruna abacanada, ossia fannullona che te la intendi con i ricchi viziosi”. 2
Come si vede, le parole emigrano con gli uomini da un paese ad un altro, vanno soggette a molte vicende ed a molte trasformazioni fonetiche, morfologiche e semantiche che le rendono incomprensibili ai parlanti del luogo di origine.

3. VERDURE SPONTANEE: Il “GRISOL”

Quando si parla di verdure si pensa specialmente alle piante coltivate negli orti. Esistono inoltre alcune piante che crescono spontaneamente e che, in altri tempi, venivano raccolte per le loro proprietà culinarie.
Una di queste piante è conosciuta nel dialetto di Pordenone con il nome di grìsol, in friulano grisulò 3. Il corrispondente nome italiano è silene (Silene angustifolia o inflata, genere delle cariofilacee). E’ molto comune non solo nelle campagne ma anche nei fossi e lungo i margini delle strade. Ha foglie opposte, argentate o grisacee, che spiegano l’origine popolare del nome, fiori di diversi colori, calice rigonfio, frutto a capsula. I germogli vengono raccolti in primavera e si mangiano specialmente con il riso; sono graditi per il loro sapore dolciastro.
Le capsule fresche, in forma di bubbolini, venivano usate dai ragazzi come divertimento, facendole scoppiare sulla fronte o sul palmo della mano, e per questo motivo, in altri dialetti veneti, vengono chiamate s’ciopète.
Il nome silene appare anche nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, e silena in portoghese). Deriva dal latino Silenus, che a sua volta lo ha preso dal greco Silenòs, nome di un personaggio mitico, Sileno, precettore di Dionisio o Bacco, rappresentato come un vecchio obeso o panciuto.
In alcuni dialetti spagnoli questa pianticella viene designata con il nome conejera (conigliera) poiché il movimento delle capsule è visto come un gruppo di coniglietti che scorrazzano agilmente.
Tutte queste creazioni semantiche dimostrano che la fantasia non è unicamente una prerogativa dei poeti, poiché anche gli umili popolani sono dotati di questa facoltà.

4. PERSONIFICAZIONI POPOLARI

Personificazione è l’atto o effetto del personificare, cioè rappresentare in forma di persona, qualcosa di astratto, ossia incarnare, dare forma umana (od anche animale e vegetale) ad un concetto.
Tutte le religioni politeiste ed in modo speciale quelle dell’antica Grecia e di Roma, ci offrono numerosi esempi di personificazione. Eccone alcuni: Giove (Zeus) è la personificazione del capo famiglia e quindi dell’autorità massima. Apollo, immaginato come un giovane di straordinaria bellezza, simboleggiava l’arte ed in modo speciale la musica e la poesia. Venere (Afrodite) invece era rappresentata come una donna bellissima e sensuale, e quindi era il simbolo dell’amore sessuale, della fecondità, dalla quale scaturisce la vita. Marte (Ares) simboleggiava la guerra. Mercurio (Ermes) era il messaggero degli dei e veniva rappresentato con le ali alle spalle ed anche ai piedi, per indicare la velocità delle comunicazioni e del commercio.
Ci sono inoltre altre personificazioni che non appartengono in rigore al mondo classico dell’antichità, bensì a epoche posteriori della cultura classica. Ne illustreremo solo alcune.

La fata
La parola latina fatum significa “predizione, oracolo, vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatali vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatalità, fato”. Si tratta quindi di concetti astratti che vennero personificati nella parola femminile singolare fata (portoghese fada, spagnolo hada, francese fée, inglese fairy, tedesco Fee)4.
Ci sono delle iscrizioni latine nelle quali fata significa “dea del destino” Le fate quindi furono immaginate come dee dotate di un potere soprannaturale sui destini umani.
Generalmente le fate sono raffigurate come donne giovani, belle, buone, sempre disposte a fare del bene; ma ci sono anche le fate malvage, secondo certi racconti infantili.
Per estensione, fata si dice di una donna di grande bellezza e di numerose virtù. Esempio: La fata dei poveri.

La befana
Befana è una parola che originariamente appare nei dialetti dell’Italia Settentrionale e deriva dal latino (e)piphan(i) a, derivato a sua volta dal greco epipháneia (hierá), le feste dell’apparizione, ossia della manifestazione della divinità di Gesù, detto il Cristo. La consonante -p- (occlusiva sorda intervocalica) si è trasformata in -b- (occlusiva sonora), fenomeno proprio dei dialetti dell’Italia Settentrionale 5. Poi la e- iniziale è caduta. Quindi abbiamo la forma attuale befana.
In occasione dell’Epifania, i Re Magi portarono al bambino Gesù, in dono: oro, incenso e mirra. Per ricordare questo fatto narrato dall’evangelista Matteo (2, 1-12), è invalsa l’usanza di fare dei doni ai bambini nel giorno di questa festività. E sono proprio i bambini di tenera età che “concretizzano”, per così dire, i fatti, le azioni ed i concetti astratti. Perciò la Befana venne raffigurata come una vecchia benefica che s’introduce per il camino del focolare e porta loro dei doni durante la notte dell’Epifania. Befana di conseguenza passò a designare i regali stessi. Ma dato l’aspetto vecchio di questo personaggio, a volte si aggiunge il significato peggiorativo di “donna vecchia e brutta”.

La maràntega
Il primo significato di maràntega nei dialetti veneti è “incubo”. Si tratta di una parola composta, il cui primo elemento è mara (derivato dall’alto tedesco), “incubo”. Il secondo elemento è antola che va associato al veneziano obsoleto àntola, “incubo”. Si tratta quindi di una superposizione di due parole di diversa origine ma con lo stesso significato 6.
Per estensione si dice maràntega ad una donna vecchia e brutta. Vedasi sopra il significato peggiorativo di “befana”. Inoltre si applica pure al temporale. Esempio: Vien su la maràntega, si avvicina la burrasca, preceduta da lampi e tuoni.

La fràcola
La fràcola è l’incubo, ossia il senso di affanno e di apprensione provocato da sogni che spaventano e angosciano. È l’equivalente del francese cauchemar, parola composta di due elementi; il primo, cauche, deriva dal latino calcare, “stringere, pigiare, torchiare”, analogo al verbo dialettale fracar; il secondo elemento mar deriva dall’alto tedesco mare, “strega” 7.
La fràcola viene raffigurata come una donna cattiva, ossia una strega che si diverte saltando sul petto delle persone, dando loro la sensazione di soffocamento. Si tratta perciò della personificazione della cattiva digestione che provoca sensazioni sgradevoli al dormiente.

La mare de San Piero
La mare de San Piero designa i temporali piuttosto violenti che si producono intorno alla festa di San Pietro, 29 giugno. Questo fenomeno atmosferico ha dato origine al proverbio “Co bròntola la mare de San Piero, brusa l’ulivo e impissa el cero”.
I Vangeli non parlano della madre di San Pietro, bensì della suocera dell’apostolo che fu sanata da Gesù, e non le si attribuiscono poteri malefici. Ci si chiede quindi come potè sorgere la leggenda popolare che diede questa designazione al fenomeno atmosferico proprio dell’estate.
Come si è detto a proposito di fràcola, la parola dell’alto tedesco mara, “incubo” venne confusa o si sovrappose a mare, “madre”, derivata dal latino matrem, madre, nome comune di persona. Perciò la personificazione del fenomeno atmosferico risultò facile.
Nel folklore friulano ci sono molte leggende e favole relative alla Mari di San Pieri, la quale viene descritta come una donna cattiva e molto invidiosa (une invidiosate), di lì il detto “invidiôs come la mari di San Pieri”.
In questo caso si è passati dall’idea sgradevole del temporale che reca danni, a quella altrettanto sgradevole di “rancore” e “astio” “invidia” per la fortuna e felicità o le qualità altrui, spesso uniti al desiderio che tutto ciò si trasformi in male.

Scarampàna
Scarampàna deriva da carampàna, sostantivo femminile, al quale si è aggiunto il prefisso s- con valore intensivo o rafforzativo.
Carampàna, a sua volta, deriva dal nome di una calle di Venezia, chiamata “Cà Rampana”, ossia casa dei Rampàni, nome dei proprietari. In detta casa alloggiavano le prostitute vecchie e brutte che ormai non esercitavano quel triste mestiere o tuttalpiù si prestavano come ruffiane.
Cà Rampàni era un luogo fuori mano, poco accogliente e, per ovvie ragioni, lontano alle chiese. Quindi una vecia carampàna prese il significato di “vecchia brutta e decrepita”. La s- iniziale ha un valore intensivo.
Dall’idea sgradevole di bruttezza si passa a quella ugualmente sgradita di “rimprovero”. Di lì deriva il detto: “Me ga tocà a mi sentir tante scarampiàne”, è toccato a me sentire tanti rimproveri (o sgridate, rabbuffi, reprimende)8.


NOTE

1) ETTORE BUSETTO. La Bossina, a cura di Giosuè Chiaradia, Propordenone, Dicembre 1970, p.149.
2) GIOVANNI MEO ZILIO – ETTORE ROSSI. El elemento italiano en el habla de Buenos Aires y Montevideo. Firenze, Valmartina Editore, 1970, p.51).
3) GIULIO ANDREA PIRONA – ERCOLE CARLETTI – GIOV. BATT. CORGNALI. Il Nuovo Pirona. Udine, Arturo Bosetti Editore e Stampatore, 1935.
4) O. BLOCH et W. von WARTBURG, Dictionnarie étymolgique de la langue française. Paris, Presses Univeritaires de France,1960.
5) CARLO BATTISTI – GIOVANNI ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze, 1950 e segg.
6) G. F. TURATO – D. DURANTE, Vocabolario etimologico veneto-italiano, Battaglia Terme (Padova), Casa Editrice “La Galiverna”, 1978.
7) O. BLOCH, op.cit.
8) G. F. TURATO, op.cit.

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