Giovedì 22 Gennaio 2009,
Trieste
Trasformare l'Arlef da agenzia regionale per la lingua friulana a una sorta di agenzia linguistica generale deputata a occuparsi anche della tutela e della valorizzazione dei dialetti e degli idiomi veneti del Friuli Venezia Giulia. E' quanto prevede la proposta di legge firmata dal capogruppo dei Cittadini-Italia dei Valori Piero Colussi, sostenuta anche da Sinistra Arcobaleno e gradita al Pd che la sta vagliando.
I dialetti venetofoni sono molto più diffusi nel Friuli Venezia Giulia di quanto si creda. Non c'è solo il litorale (da Muggia a Marano) - è stato detto ieri - ma lo stesso centro di Udine, dove tradizionalmente i ceti più agiati si esprimevano più in veneto che in friulano. Colussi chiarisce però che il livello di tutela non sarebbe lo stesso del friulano: non si prevedono interventi né nell'insegnamento scolastico né nella toponomastica. Si pensa piuttosto alla protezione di un patrimonio che secondo Roberto Antonaz (Sinistra Arcobaleno) «è non solo della regione ma di tutta l'umanità».
Tutelare dunque in modo diverso gli idiomi venetofoni, tra cui il bisiaco e il triestino – questa la filosofia che emerge dall'arco di Intesa Democratica. Ed evitare sperperi e contrapposizioni: di qui la proposta di non creare un'altra Agenzia. «Non è tempo di fare doppioni. In più ampliando l'Arlef – spiega Colussi – si possono superare quelle barriere culturali che appartengono a un passato da non incentivare», se è vero come ha rilevato il suo collega triestino Alunni Barbarossa che «la civiltà di un popolo si misura sulla tutela delle culture del passato». I nomi che incarnano questa civiltà sono tanti e di terre e tempi diversi: dal gradese Biagio Marin, al pordenonese Gianmario Villalta, al bisiaco Ivan Crico, al triestino Claudio Grisancich.
La proposta Cittadini-Idv-Sinistra Arcobaleno - che lascia vuota la casella relativa ai finanziamenti - è la terza sul tappeto del Consiglio regionale: due analoghe sono già state presentate dal centrodestra, primi firmatati rispettivamente Piero Camber (Pdl) e Federico Razzini (Lega Nord). La soluzione più probabile, secondo Colussi, è che si trovi una sintesi in sede di comitato ristretto, ma Antonaz non è fiducioso sulla disponibilità della maggioranza: «C'è in loro un atteggiamento diverso, quello di chi vuole fare degli idiomi locali un elemento di differenza, che crea muri e distanze».
L'esigenza di proteggere i dialetti si sta però diffondendo. Da tempo l'Associazione Armonia raccoglie firme per la tutela del dialetto triestino proponendosi a tutti gli interlocutori politici senza distinzione di schieramento e il Consiglio comunale di Ronchi già nel 2007 aveva approvato all'unanimità un ordine del giorno a favore della tutela della bisiacaria. Culture diverse, ma non meno importanti, che talvolta riscuotono apprezzamento nell'estero lontano. Come ricorda Crico, il gradese Biagio Marin è tradotto anche in Cina, a differenza di tanti autori in italiano.
P.P.
martedì 27 gennaio 2009
domenica 25 gennaio 2009
Ettore Busetto, poeta nel veneto pordenonese
ETTORE BUSETTO
Ettore Busetto (Pordenone 1909 - 1978) visse e lavorò a Pordenone divenendo una delle figure più rappresentative e più ricordate della città, anche a distanza di trent'anni dalla scomparsa. Fu impiegato all'Elettrica Trevigiana (oggi Enel) quindi nell'azienda commerciale da lui fondata. Negli anni 20 il primo contatto con il teatro, interesse che insieme alla poesia lo accompagnò per tutta la vita. A una prima esperienza nella filodrammatica del Circolo giovanile “Beato Odorico” segue la partecipazione nella filodrammatica del Dopolavoro che esordisce nel 1932. L'anno successivo il complesso consegue il primo premio al terzo concorso tra le filodrammatiche del Friuli con un'opera che vide Ettore Busetto protagonista. Nel 1940 viene chiamato a dirigere la filodrammatica del Dopolavoro del Cotonificio Veneziano. Esperienza che chiuderà; la sua partecipazione in ambito teatrale (ci ritornerà solo solo per declamare qualche lirica). L'amore per il teatro però non si esaurisce nel poeta che scrive un atto unico: "Le strade della vita". Nel 1949 fonda la Propordenone della quale accetta la direzione solo nel 1957, per un anno, durante un periodo di difficoltà per l'istituzione. Tra i molteplici suoi impegni sociali si ricorda il sostegno dato alla costituzione dell'Università popolare (poi circolo Humanitas), della filodrammatica (poi Gruppo Teatro), e la promozione della Rassegna di prosa. Nel 1975 riceve il cavalierato della Repubblica e nel 1976 il premio San Marco. Nel 1948 pubblica, cedendo alle affettuose insistenze di amici e ammiratori, pubblica "La Bossina” (ed. Cosarini, 1948). Nel 1970 è la seconda edizione de “La Bossina" (Propordenone, 1970) rimaneggiata rispetto alla precedente. Quattro anni più tardi il volume "I sentieri dell'infinito" (Propordenone, 1974). Altre liriche hanno sono state pubblicate su giornali e riviste locali riscuotendo un notevole successo.
*
QUI DI SEGUITI SI RIPORTA UN INTERESSANTE TESTO SU ALCUNE TIPICHE ESPRESSIONI DELLA PARLATA PORDENONESE
DI CUI BUSETTO FU GRANDE ESTIMATORE E RAFFINATO INTERPRETE
Bacàn, Maràntega, Scarampàna
Tipiche espressioni del dialetto pordenonese
di Mario Sartor Ceciliot
1. LA FRASCA
Prima di trattare il tema specifico di questa dissertazione, conviene impostarlo adeguatamente, poiché non costituisce un problema isolato ma va studiato piuttosto come uno dei tanti mezzi di comunicazione.
Per raggiungere questo scopo, illustreremo brevemente la personalità e l’opera di Ferdinand De Saussure (l857-l9l3), un linguista svizzero che, tra gli anni 1906-1911, dettò lezioni a Ginevra, le quali vennero raccolte dai suoi allievi e pubblicate nel libro Corso di linguistica generale. Quest’opera è il punto di partenza degli aspetti più significativi della linguistica contemporanea, specialmente dello strutturalismo.
Uno dei concetti importanti proposti da De Saussure è quello di segno, tecnicismo che designa la “combinazione del concetto e dell’immagine”, ossia di un significato ed un significante. Segno è inoltre qualsiasi sistema visuale di comunicazione, in modo speciale della scrittura ma anche dei vari codici di comunicazione dei quali può servirsi l’uomo, per trasmettere un messaggio. Esempi: la fumata bianca o nera, durante il conclave per l’elezione del Papa, per annunciare l’esito positivo o negativo della votazione; il saluto militare, portando la mano sulla fronte (in origine, quando due militari di bandi contrari volevano entrare in trattative, per dimostrare le loro intenzioni pacifiche, sollevavano con la mano destra la visiera dell’armatura che copriva il viso); il sistema del quale si valgono i marinai per trasmettere messaggi, per mezzo di bandierine; la moderna segnaletica stradale; moltissimi stratagemmi dei quali si vale la pubblicità commerciale o ideologica.
Dell’insieme dei segni dei quali si serve l’uomo per trasmettere messaggi si occupa la semiologia (nome proposto da De Saussure, derivato dal greco semeiôn, “segno”), la quale studia la vita dei segni nel seno della vita sociale. La linguistica non è altro che una parte di questa scienza generale.
Oltre ai sensi dell’udito e della vista, che sono i più importanti, l’uomo può servirsi del tatto, del gusto e dell’olfatto. Per il tatto citiamo la scrittura Braille per i ciechi, formata da punti in rilievo simboleggianti le lettere dell’alfabeto, le quali si decifrano passando i polpastelli sul foglio.
Del senso del gusto si è valsa la cultura gauchesca in Argentina, per trasmettere segretamente messaggi conosciuti solo dagli iniziati. Quando la chinita, la ragazza, serviva al gaucho, il mandriano delle pampe, un mate amargo (un’infusione di foglie di Ilex paraguayensis) senza zucchero, voleva dichiarare amore all’uomo che era giunto al suo rancho. Viceversa, se il mate era dolce equivaleva a “indifferenza” o “rifiuto”.
Volendo, si potrebbero trasmettere messaggi anche con l’olfatto, ossia con gli odori o profumi, stabilendo d’antemano il significato che si vuol dare ad ognuno di essi.
Dopo questa premessa, risulterà più facile comprendere come la parola frasca (in friulano fras’cje) al significato primitivo di “ramo verde con tutte le foglie”, abbia aggiunto quello di “insegna di osteria di campagna, dove si vende vino”. Da lì deriva il detto “il buon vino non ha bisogno di frasca”, cioè il buon vino ed in generale le cose che valgono non hanno bisogno di pubblicità.
Fino agli anni ottanta circa, la frasca designava la casa rurale dove si vendeva vino di produzione propria. Veniva chiamata così, perché all’esterno dell’edificio si metteva come insegna una frasca, per pubblicizzare il prodotto.
Nell’interno della proprietà rurale si disponevano delle tavole rustiche, sia all’aperto, sia sotto tettoie, dove si serviva vino come nelle osterie. Per maggior chiarezza, a volte si metteva un cartello con la scritta Frasca. I clienti si sedevano accanto a lunghe tavole e potevano chiedere il vino della fattoria, a molto buon prezzo, il quale veniva calcolato in base al numero delle persone che vi partecipavano el il tempo durante il quale rimanevano nel locale.
Mèter su frasca significava “aprire un’osteria in campagna” secondo le modalità sopra descritte. Inoltre si usava mettere una frasca sopra un edificio in costruzione (casa, stalla, ecc.) dopo che si era collocato il tetto. Con questo stratagemma, gli operai richiedevano al proprietario dell’edificio che offrisse un banchetto nell’interno dello stabile. Questa pratica era detta far l’incovo.
Non solo in Italia ci si serviva della frasca come insegna pubblicitaria, poiché anche in Spagna venne utilizzata nei secoli scorsi. Un ramo (ossia una frasca) esposto all’esterno di una casa, significava che lì funzionava una specie di locanda, dove si serviva da mangiare e da bere. E, come dice la canzone degli alpini: “E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, oh bella mora, se vuoi venire è questa l’ora di far l’amor”. Quindi ramera (derivato di rama) oltre a significare locandiera, con il tempo divenne “donna che mantiene facilmente rapporti sessuali con gli uomini”, ossia “prostituta”.
Come si vede, tutto il mondo è paese.
2. LA OMOFONIA DI BACÀN “BACCANO, STREPITO” E BACÀN “CONTADINO BENESTANTE”
Gli omofoni sono segni che rappresentano uno stesso suono. Esempio la c- di cuore e la q- di quota. Omofone sono le parole che hanno lo stesso suono ma significato diverso. Omofono è una parola formata dal greco homós, “uguale”, “simile” e phòno-, derivato da phoné, “suono”, “voce”. Esempi di omofonia in italiano: fiera, “belva” e fiera, “mercato”; fòro, “apertura” e fòro, “centro della vita romana”; le locuzioni da canto, “per cantare” e d’accanto, “vicino, al lato”.
Esempi di omofonia si riscontrano in tutte le lingue ed anche nei dialetti che sono pure delle lingue con minore importanza letteraria e sociale.
L’ omofonia può indurre in errore coloro che non hanno molta familiarità con l’etimologia, ragione per cui qualcuno può pensare che bacàn, “baccano, strepito” e bacàn, “contadino benestante” possono avere la stessa origine.
Bacàn con il significato di “strepito”, deriva da “baccanale”, festa chiassosa e orgiastica in onore di Bacco, il dio del vino. Nell’antichità erano famose le baccanali, che degeneravano facilmente in orge rumorose. Quindi quando diciamo no stè far bacàn, si vuole raccomandare di “non fare chiasso” che ha lo stesso significato di “no stè far bordèl”. E sbacanada è una risata fragorosa”.
Il secondo bacàn, invece, salvo l’omofonia, non ha nulla in comune con il primo. Può significare: “Terratenente che lavora la propria terra” oppure “contadino benestante che vive esclusivamente dei prodotti dell’ attività agricola”. Si tratta di una parola che i veneziani hanno preso dai turchi della penisola Balcanica (e più esattamente dalla Dalmazia), la quale nella loro lingua significa “contadino che porta al mercato i prodotti della propria terra”. Quindi: i zè una famèia de bacàni, significa “è una famiglia di contadini benestanti”.
In una poesia del poeta pordenonese Ettore Busetto 1 appare la parola bacanoto, con il significato di “riccaccione”. Da’n musso bacanòto se xe recà ‘n agnelo, un agnello si è recato da un asino alle dipendenze di un ricco terratenente.
Bacàn passò dal veneziano al genovese, con il significato di “padrone della nave”, quindi “persona ricca”. A loro volta i genovesi portarono questa parola in Argentina, specialmente a Buenos Aires, nel famoso quartiere popolare della Boca (ossia la “bocca” o “inizio” del piccolo fiume Riachuelo, affluente del Rio de la Plata), dove i genovesi continuarono a svolgere attività marinare. Questa parola si arricchì di nuove connotazioni semantiche: “capo”; “uomo ricco che sfoggia la sua ricchezza, di vita facile, di bella presenza”, quindi una specie di play boy “ante litteram”.
Bacàn inoltre in Argentina, significa “uomo generoso con le donne, che può permettersi di pagarle o di colmarle di regali”. Ed il femminile bacana designa la donna di facili costumi che convive con qualche bacàn, come lo dimostra la strofa di un famoso tango: “Ahora vas con los otarios a pasarla de bacana/ a un lujoso reservado del Petit o del Julién…” (traduzione: “Ora vai con i semplicioni, che possono essere ingannati facilmente, a qualche lussuoso ristorante o caffè di attività ambigue per coppie licenziose”. In un altro tango, il giovane che ha perso l’amore della sua ragazza, si sfoga dicendole pelandruna abacanada, ossia fannullona che te la intendi con i ricchi viziosi”. 2
Come si vede, le parole emigrano con gli uomini da un paese ad un altro, vanno soggette a molte vicende ed a molte trasformazioni fonetiche, morfologiche e semantiche che le rendono incomprensibili ai parlanti del luogo di origine.
3. VERDURE SPONTANEE: Il “GRISOL”
Quando si parla di verdure si pensa specialmente alle piante coltivate negli orti. Esistono inoltre alcune piante che crescono spontaneamente e che, in altri tempi, venivano raccolte per le loro proprietà culinarie.
Una di queste piante è conosciuta nel dialetto di Pordenone con il nome di grìsol, in friulano grisulò 3. Il corrispondente nome italiano è silene (Silene angustifolia o inflata, genere delle cariofilacee). E’ molto comune non solo nelle campagne ma anche nei fossi e lungo i margini delle strade. Ha foglie opposte, argentate o grisacee, che spiegano l’origine popolare del nome, fiori di diversi colori, calice rigonfio, frutto a capsula. I germogli vengono raccolti in primavera e si mangiano specialmente con il riso; sono graditi per il loro sapore dolciastro.
Le capsule fresche, in forma di bubbolini, venivano usate dai ragazzi come divertimento, facendole scoppiare sulla fronte o sul palmo della mano, e per questo motivo, in altri dialetti veneti, vengono chiamate s’ciopète.
Il nome silene appare anche nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, e silena in portoghese). Deriva dal latino Silenus, che a sua volta lo ha preso dal greco Silenòs, nome di un personaggio mitico, Sileno, precettore di Dionisio o Bacco, rappresentato come un vecchio obeso o panciuto.
In alcuni dialetti spagnoli questa pianticella viene designata con il nome conejera (conigliera) poiché il movimento delle capsule è visto come un gruppo di coniglietti che scorrazzano agilmente.
Tutte queste creazioni semantiche dimostrano che la fantasia non è unicamente una prerogativa dei poeti, poiché anche gli umili popolani sono dotati di questa facoltà.
4. PERSONIFICAZIONI POPOLARI
Personificazione è l’atto o effetto del personificare, cioè rappresentare in forma di persona, qualcosa di astratto, ossia incarnare, dare forma umana (od anche animale e vegetale) ad un concetto.
Tutte le religioni politeiste ed in modo speciale quelle dell’antica Grecia e di Roma, ci offrono numerosi esempi di personificazione. Eccone alcuni: Giove (Zeus) è la personificazione del capo famiglia e quindi dell’autorità massima. Apollo, immaginato come un giovane di straordinaria bellezza, simboleggiava l’arte ed in modo speciale la musica e la poesia. Venere (Afrodite) invece era rappresentata come una donna bellissima e sensuale, e quindi era il simbolo dell’amore sessuale, della fecondità, dalla quale scaturisce la vita. Marte (Ares) simboleggiava la guerra. Mercurio (Ermes) era il messaggero degli dei e veniva rappresentato con le ali alle spalle ed anche ai piedi, per indicare la velocità delle comunicazioni e del commercio.
Ci sono inoltre altre personificazioni che non appartengono in rigore al mondo classico dell’antichità, bensì a epoche posteriori della cultura classica. Ne illustreremo solo alcune.
La fata
La parola latina fatum significa “predizione, oracolo, vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatali vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatalità, fato”. Si tratta quindi di concetti astratti che vennero personificati nella parola femminile singolare fata (portoghese fada, spagnolo hada, francese fée, inglese fairy, tedesco Fee)4.
Ci sono delle iscrizioni latine nelle quali fata significa “dea del destino” Le fate quindi furono immaginate come dee dotate di un potere soprannaturale sui destini umani.
Generalmente le fate sono raffigurate come donne giovani, belle, buone, sempre disposte a fare del bene; ma ci sono anche le fate malvage, secondo certi racconti infantili.
Per estensione, fata si dice di una donna di grande bellezza e di numerose virtù. Esempio: La fata dei poveri.
La befana
Befana è una parola che originariamente appare nei dialetti dell’Italia Settentrionale e deriva dal latino (e)piphan(i) a, derivato a sua volta dal greco epipháneia (hierá), le feste dell’apparizione, ossia della manifestazione della divinità di Gesù, detto il Cristo. La consonante -p- (occlusiva sorda intervocalica) si è trasformata in -b- (occlusiva sonora), fenomeno proprio dei dialetti dell’Italia Settentrionale 5. Poi la e- iniziale è caduta. Quindi abbiamo la forma attuale befana.
In occasione dell’Epifania, i Re Magi portarono al bambino Gesù, in dono: oro, incenso e mirra. Per ricordare questo fatto narrato dall’evangelista Matteo (2, 1-12), è invalsa l’usanza di fare dei doni ai bambini nel giorno di questa festività. E sono proprio i bambini di tenera età che “concretizzano”, per così dire, i fatti, le azioni ed i concetti astratti. Perciò la Befana venne raffigurata come una vecchia benefica che s’introduce per il camino del focolare e porta loro dei doni durante la notte dell’Epifania. Befana di conseguenza passò a designare i regali stessi. Ma dato l’aspetto vecchio di questo personaggio, a volte si aggiunge il significato peggiorativo di “donna vecchia e brutta”.
La maràntega
Il primo significato di maràntega nei dialetti veneti è “incubo”. Si tratta di una parola composta, il cui primo elemento è mara (derivato dall’alto tedesco), “incubo”. Il secondo elemento è antola che va associato al veneziano obsoleto àntola, “incubo”. Si tratta quindi di una superposizione di due parole di diversa origine ma con lo stesso significato 6.
Per estensione si dice maràntega ad una donna vecchia e brutta. Vedasi sopra il significato peggiorativo di “befana”. Inoltre si applica pure al temporale. Esempio: Vien su la maràntega, si avvicina la burrasca, preceduta da lampi e tuoni.
La fràcola
La fràcola è l’incubo, ossia il senso di affanno e di apprensione provocato da sogni che spaventano e angosciano. È l’equivalente del francese cauchemar, parola composta di due elementi; il primo, cauche, deriva dal latino calcare, “stringere, pigiare, torchiare”, analogo al verbo dialettale fracar; il secondo elemento mar deriva dall’alto tedesco mare, “strega” 7.
La fràcola viene raffigurata come una donna cattiva, ossia una strega che si diverte saltando sul petto delle persone, dando loro la sensazione di soffocamento. Si tratta perciò della personificazione della cattiva digestione che provoca sensazioni sgradevoli al dormiente.
La mare de San Piero
La mare de San Piero designa i temporali piuttosto violenti che si producono intorno alla festa di San Pietro, 29 giugno. Questo fenomeno atmosferico ha dato origine al proverbio “Co bròntola la mare de San Piero, brusa l’ulivo e impissa el cero”.
I Vangeli non parlano della madre di San Pietro, bensì della suocera dell’apostolo che fu sanata da Gesù, e non le si attribuiscono poteri malefici. Ci si chiede quindi come potè sorgere la leggenda popolare che diede questa designazione al fenomeno atmosferico proprio dell’estate.
Come si è detto a proposito di fràcola, la parola dell’alto tedesco mara, “incubo” venne confusa o si sovrappose a mare, “madre”, derivata dal latino matrem, madre, nome comune di persona. Perciò la personificazione del fenomeno atmosferico risultò facile.
Nel folklore friulano ci sono molte leggende e favole relative alla Mari di San Pieri, la quale viene descritta come una donna cattiva e molto invidiosa (une invidiosate), di lì il detto “invidiôs come la mari di San Pieri”.
In questo caso si è passati dall’idea sgradevole del temporale che reca danni, a quella altrettanto sgradevole di “rancore” e “astio” “invidia” per la fortuna e felicità o le qualità altrui, spesso uniti al desiderio che tutto ciò si trasformi in male.
Scarampàna
Scarampàna deriva da carampàna, sostantivo femminile, al quale si è aggiunto il prefisso s- con valore intensivo o rafforzativo.
Carampàna, a sua volta, deriva dal nome di una calle di Venezia, chiamata “Cà Rampana”, ossia casa dei Rampàni, nome dei proprietari. In detta casa alloggiavano le prostitute vecchie e brutte che ormai non esercitavano quel triste mestiere o tuttalpiù si prestavano come ruffiane.
Cà Rampàni era un luogo fuori mano, poco accogliente e, per ovvie ragioni, lontano alle chiese. Quindi una vecia carampàna prese il significato di “vecchia brutta e decrepita”. La s- iniziale ha un valore intensivo.
Dall’idea sgradevole di bruttezza si passa a quella ugualmente sgradita di “rimprovero”. Di lì deriva il detto: “Me ga tocà a mi sentir tante scarampiàne”, è toccato a me sentire tanti rimproveri (o sgridate, rabbuffi, reprimende)8.
NOTE
1) ETTORE BUSETTO. La Bossina, a cura di Giosuè Chiaradia, Propordenone, Dicembre 1970, p.149.
2) GIOVANNI MEO ZILIO – ETTORE ROSSI. El elemento italiano en el habla de Buenos Aires y Montevideo. Firenze, Valmartina Editore, 1970, p.51).
3) GIULIO ANDREA PIRONA – ERCOLE CARLETTI – GIOV. BATT. CORGNALI. Il Nuovo Pirona. Udine, Arturo Bosetti Editore e Stampatore, 1935.
4) O. BLOCH et W. von WARTBURG, Dictionnarie étymolgique de la langue française. Paris, Presses Univeritaires de France,1960.
5) CARLO BATTISTI – GIOVANNI ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze, 1950 e segg.
6) G. F. TURATO – D. DURANTE, Vocabolario etimologico veneto-italiano, Battaglia Terme (Padova), Casa Editrice “La Galiverna”, 1978.
7) O. BLOCH, op.cit.
8) G. F. TURATO, op.cit.
Ettore Busetto (Pordenone 1909 - 1978) visse e lavorò a Pordenone divenendo una delle figure più rappresentative e più ricordate della città, anche a distanza di trent'anni dalla scomparsa. Fu impiegato all'Elettrica Trevigiana (oggi Enel) quindi nell'azienda commerciale da lui fondata. Negli anni 20 il primo contatto con il teatro, interesse che insieme alla poesia lo accompagnò per tutta la vita. A una prima esperienza nella filodrammatica del Circolo giovanile “Beato Odorico” segue la partecipazione nella filodrammatica del Dopolavoro che esordisce nel 1932. L'anno successivo il complesso consegue il primo premio al terzo concorso tra le filodrammatiche del Friuli con un'opera che vide Ettore Busetto protagonista. Nel 1940 viene chiamato a dirigere la filodrammatica del Dopolavoro del Cotonificio Veneziano. Esperienza che chiuderà; la sua partecipazione in ambito teatrale (ci ritornerà solo solo per declamare qualche lirica). L'amore per il teatro però non si esaurisce nel poeta che scrive un atto unico: "Le strade della vita". Nel 1949 fonda la Propordenone della quale accetta la direzione solo nel 1957, per un anno, durante un periodo di difficoltà per l'istituzione. Tra i molteplici suoi impegni sociali si ricorda il sostegno dato alla costituzione dell'Università popolare (poi circolo Humanitas), della filodrammatica (poi Gruppo Teatro), e la promozione della Rassegna di prosa. Nel 1975 riceve il cavalierato della Repubblica e nel 1976 il premio San Marco. Nel 1948 pubblica, cedendo alle affettuose insistenze di amici e ammiratori, pubblica "La Bossina” (ed. Cosarini, 1948). Nel 1970 è la seconda edizione de “La Bossina" (Propordenone, 1970) rimaneggiata rispetto alla precedente. Quattro anni più tardi il volume "I sentieri dell'infinito" (Propordenone, 1974). Altre liriche hanno sono state pubblicate su giornali e riviste locali riscuotendo un notevole successo.
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QUI DI SEGUITI SI RIPORTA UN INTERESSANTE TESTO SU ALCUNE TIPICHE ESPRESSIONI DELLA PARLATA PORDENONESE
DI CUI BUSETTO FU GRANDE ESTIMATORE E RAFFINATO INTERPRETE
Bacàn, Maràntega, Scarampàna
Tipiche espressioni del dialetto pordenonese
di Mario Sartor Ceciliot
1. LA FRASCA
Prima di trattare il tema specifico di questa dissertazione, conviene impostarlo adeguatamente, poiché non costituisce un problema isolato ma va studiato piuttosto come uno dei tanti mezzi di comunicazione.
Per raggiungere questo scopo, illustreremo brevemente la personalità e l’opera di Ferdinand De Saussure (l857-l9l3), un linguista svizzero che, tra gli anni 1906-1911, dettò lezioni a Ginevra, le quali vennero raccolte dai suoi allievi e pubblicate nel libro Corso di linguistica generale. Quest’opera è il punto di partenza degli aspetti più significativi della linguistica contemporanea, specialmente dello strutturalismo.
Uno dei concetti importanti proposti da De Saussure è quello di segno, tecnicismo che designa la “combinazione del concetto e dell’immagine”, ossia di un significato ed un significante. Segno è inoltre qualsiasi sistema visuale di comunicazione, in modo speciale della scrittura ma anche dei vari codici di comunicazione dei quali può servirsi l’uomo, per trasmettere un messaggio. Esempi: la fumata bianca o nera, durante il conclave per l’elezione del Papa, per annunciare l’esito positivo o negativo della votazione; il saluto militare, portando la mano sulla fronte (in origine, quando due militari di bandi contrari volevano entrare in trattative, per dimostrare le loro intenzioni pacifiche, sollevavano con la mano destra la visiera dell’armatura che copriva il viso); il sistema del quale si valgono i marinai per trasmettere messaggi, per mezzo di bandierine; la moderna segnaletica stradale; moltissimi stratagemmi dei quali si vale la pubblicità commerciale o ideologica.
Dell’insieme dei segni dei quali si serve l’uomo per trasmettere messaggi si occupa la semiologia (nome proposto da De Saussure, derivato dal greco semeiôn, “segno”), la quale studia la vita dei segni nel seno della vita sociale. La linguistica non è altro che una parte di questa scienza generale.
Oltre ai sensi dell’udito e della vista, che sono i più importanti, l’uomo può servirsi del tatto, del gusto e dell’olfatto. Per il tatto citiamo la scrittura Braille per i ciechi, formata da punti in rilievo simboleggianti le lettere dell’alfabeto, le quali si decifrano passando i polpastelli sul foglio.
Del senso del gusto si è valsa la cultura gauchesca in Argentina, per trasmettere segretamente messaggi conosciuti solo dagli iniziati. Quando la chinita, la ragazza, serviva al gaucho, il mandriano delle pampe, un mate amargo (un’infusione di foglie di Ilex paraguayensis) senza zucchero, voleva dichiarare amore all’uomo che era giunto al suo rancho. Viceversa, se il mate era dolce equivaleva a “indifferenza” o “rifiuto”.
Volendo, si potrebbero trasmettere messaggi anche con l’olfatto, ossia con gli odori o profumi, stabilendo d’antemano il significato che si vuol dare ad ognuno di essi.
Dopo questa premessa, risulterà più facile comprendere come la parola frasca (in friulano fras’cje) al significato primitivo di “ramo verde con tutte le foglie”, abbia aggiunto quello di “insegna di osteria di campagna, dove si vende vino”. Da lì deriva il detto “il buon vino non ha bisogno di frasca”, cioè il buon vino ed in generale le cose che valgono non hanno bisogno di pubblicità.
Fino agli anni ottanta circa, la frasca designava la casa rurale dove si vendeva vino di produzione propria. Veniva chiamata così, perché all’esterno dell’edificio si metteva come insegna una frasca, per pubblicizzare il prodotto.
Nell’interno della proprietà rurale si disponevano delle tavole rustiche, sia all’aperto, sia sotto tettoie, dove si serviva vino come nelle osterie. Per maggior chiarezza, a volte si metteva un cartello con la scritta Frasca. I clienti si sedevano accanto a lunghe tavole e potevano chiedere il vino della fattoria, a molto buon prezzo, il quale veniva calcolato in base al numero delle persone che vi partecipavano el il tempo durante il quale rimanevano nel locale.
Mèter su frasca significava “aprire un’osteria in campagna” secondo le modalità sopra descritte. Inoltre si usava mettere una frasca sopra un edificio in costruzione (casa, stalla, ecc.) dopo che si era collocato il tetto. Con questo stratagemma, gli operai richiedevano al proprietario dell’edificio che offrisse un banchetto nell’interno dello stabile. Questa pratica era detta far l’incovo.
Non solo in Italia ci si serviva della frasca come insegna pubblicitaria, poiché anche in Spagna venne utilizzata nei secoli scorsi. Un ramo (ossia una frasca) esposto all’esterno di una casa, significava che lì funzionava una specie di locanda, dove si serviva da mangiare e da bere. E, come dice la canzone degli alpini: “E dopo aver mangiato, mangiato e ben bevuto, oh bella mora, se vuoi venire è questa l’ora di far l’amor”. Quindi ramera (derivato di rama) oltre a significare locandiera, con il tempo divenne “donna che mantiene facilmente rapporti sessuali con gli uomini”, ossia “prostituta”.
Come si vede, tutto il mondo è paese.
2. LA OMOFONIA DI BACÀN “BACCANO, STREPITO” E BACÀN “CONTADINO BENESTANTE”
Gli omofoni sono segni che rappresentano uno stesso suono. Esempio la c- di cuore e la q- di quota. Omofone sono le parole che hanno lo stesso suono ma significato diverso. Omofono è una parola formata dal greco homós, “uguale”, “simile” e phòno-, derivato da phoné, “suono”, “voce”. Esempi di omofonia in italiano: fiera, “belva” e fiera, “mercato”; fòro, “apertura” e fòro, “centro della vita romana”; le locuzioni da canto, “per cantare” e d’accanto, “vicino, al lato”.
Esempi di omofonia si riscontrano in tutte le lingue ed anche nei dialetti che sono pure delle lingue con minore importanza letteraria e sociale.
L’ omofonia può indurre in errore coloro che non hanno molta familiarità con l’etimologia, ragione per cui qualcuno può pensare che bacàn, “baccano, strepito” e bacàn, “contadino benestante” possono avere la stessa origine.
Bacàn con il significato di “strepito”, deriva da “baccanale”, festa chiassosa e orgiastica in onore di Bacco, il dio del vino. Nell’antichità erano famose le baccanali, che degeneravano facilmente in orge rumorose. Quindi quando diciamo no stè far bacàn, si vuole raccomandare di “non fare chiasso” che ha lo stesso significato di “no stè far bordèl”. E sbacanada è una risata fragorosa”.
Il secondo bacàn, invece, salvo l’omofonia, non ha nulla in comune con il primo. Può significare: “Terratenente che lavora la propria terra” oppure “contadino benestante che vive esclusivamente dei prodotti dell’ attività agricola”. Si tratta di una parola che i veneziani hanno preso dai turchi della penisola Balcanica (e più esattamente dalla Dalmazia), la quale nella loro lingua significa “contadino che porta al mercato i prodotti della propria terra”. Quindi: i zè una famèia de bacàni, significa “è una famiglia di contadini benestanti”.
In una poesia del poeta pordenonese Ettore Busetto 1 appare la parola bacanoto, con il significato di “riccaccione”. Da’n musso bacanòto se xe recà ‘n agnelo, un agnello si è recato da un asino alle dipendenze di un ricco terratenente.
Bacàn passò dal veneziano al genovese, con il significato di “padrone della nave”, quindi “persona ricca”. A loro volta i genovesi portarono questa parola in Argentina, specialmente a Buenos Aires, nel famoso quartiere popolare della Boca (ossia la “bocca” o “inizio” del piccolo fiume Riachuelo, affluente del Rio de la Plata), dove i genovesi continuarono a svolgere attività marinare. Questa parola si arricchì di nuove connotazioni semantiche: “capo”; “uomo ricco che sfoggia la sua ricchezza, di vita facile, di bella presenza”, quindi una specie di play boy “ante litteram”.
Bacàn inoltre in Argentina, significa “uomo generoso con le donne, che può permettersi di pagarle o di colmarle di regali”. Ed il femminile bacana designa la donna di facili costumi che convive con qualche bacàn, come lo dimostra la strofa di un famoso tango: “Ahora vas con los otarios a pasarla de bacana/ a un lujoso reservado del Petit o del Julién…” (traduzione: “Ora vai con i semplicioni, che possono essere ingannati facilmente, a qualche lussuoso ristorante o caffè di attività ambigue per coppie licenziose”. In un altro tango, il giovane che ha perso l’amore della sua ragazza, si sfoga dicendole pelandruna abacanada, ossia fannullona che te la intendi con i ricchi viziosi”. 2
Come si vede, le parole emigrano con gli uomini da un paese ad un altro, vanno soggette a molte vicende ed a molte trasformazioni fonetiche, morfologiche e semantiche che le rendono incomprensibili ai parlanti del luogo di origine.
3. VERDURE SPONTANEE: Il “GRISOL”
Quando si parla di verdure si pensa specialmente alle piante coltivate negli orti. Esistono inoltre alcune piante che crescono spontaneamente e che, in altri tempi, venivano raccolte per le loro proprietà culinarie.
Una di queste piante è conosciuta nel dialetto di Pordenone con il nome di grìsol, in friulano grisulò 3. Il corrispondente nome italiano è silene (Silene angustifolia o inflata, genere delle cariofilacee). E’ molto comune non solo nelle campagne ma anche nei fossi e lungo i margini delle strade. Ha foglie opposte, argentate o grisacee, che spiegano l’origine popolare del nome, fiori di diversi colori, calice rigonfio, frutto a capsula. I germogli vengono raccolti in primavera e si mangiano specialmente con il riso; sono graditi per il loro sapore dolciastro.
Le capsule fresche, in forma di bubbolini, venivano usate dai ragazzi come divertimento, facendole scoppiare sulla fronte o sul palmo della mano, e per questo motivo, in altri dialetti veneti, vengono chiamate s’ciopète.
Il nome silene appare anche nelle altre lingue romanze (francese, spagnolo, e silena in portoghese). Deriva dal latino Silenus, che a sua volta lo ha preso dal greco Silenòs, nome di un personaggio mitico, Sileno, precettore di Dionisio o Bacco, rappresentato come un vecchio obeso o panciuto.
In alcuni dialetti spagnoli questa pianticella viene designata con il nome conejera (conigliera) poiché il movimento delle capsule è visto come un gruppo di coniglietti che scorrazzano agilmente.
Tutte queste creazioni semantiche dimostrano che la fantasia non è unicamente una prerogativa dei poeti, poiché anche gli umili popolani sono dotati di questa facoltà.
4. PERSONIFICAZIONI POPOLARI
Personificazione è l’atto o effetto del personificare, cioè rappresentare in forma di persona, qualcosa di astratto, ossia incarnare, dare forma umana (od anche animale e vegetale) ad un concetto.
Tutte le religioni politeiste ed in modo speciale quelle dell’antica Grecia e di Roma, ci offrono numerosi esempi di personificazione. Eccone alcuni: Giove (Zeus) è la personificazione del capo famiglia e quindi dell’autorità massima. Apollo, immaginato come un giovane di straordinaria bellezza, simboleggiava l’arte ed in modo speciale la musica e la poesia. Venere (Afrodite) invece era rappresentata come una donna bellissima e sensuale, e quindi era il simbolo dell’amore sessuale, della fecondità, dalla quale scaturisce la vita. Marte (Ares) simboleggiava la guerra. Mercurio (Ermes) era il messaggero degli dei e veniva rappresentato con le ali alle spalle ed anche ai piedi, per indicare la velocità delle comunicazioni e del commercio.
Ci sono inoltre altre personificazioni che non appartengono in rigore al mondo classico dell’antichità, bensì a epoche posteriori della cultura classica. Ne illustreremo solo alcune.
La fata
La parola latina fatum significa “predizione, oracolo, vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatali vaticinio”. Il plurale fata equivaleva a “destino, fatalità, fato”. Si tratta quindi di concetti astratti che vennero personificati nella parola femminile singolare fata (portoghese fada, spagnolo hada, francese fée, inglese fairy, tedesco Fee)4.
Ci sono delle iscrizioni latine nelle quali fata significa “dea del destino” Le fate quindi furono immaginate come dee dotate di un potere soprannaturale sui destini umani.
Generalmente le fate sono raffigurate come donne giovani, belle, buone, sempre disposte a fare del bene; ma ci sono anche le fate malvage, secondo certi racconti infantili.
Per estensione, fata si dice di una donna di grande bellezza e di numerose virtù. Esempio: La fata dei poveri.
La befana
Befana è una parola che originariamente appare nei dialetti dell’Italia Settentrionale e deriva dal latino (e)piphan(i) a, derivato a sua volta dal greco epipháneia (hierá), le feste dell’apparizione, ossia della manifestazione della divinità di Gesù, detto il Cristo. La consonante -p- (occlusiva sorda intervocalica) si è trasformata in -b- (occlusiva sonora), fenomeno proprio dei dialetti dell’Italia Settentrionale 5. Poi la e- iniziale è caduta. Quindi abbiamo la forma attuale befana.
In occasione dell’Epifania, i Re Magi portarono al bambino Gesù, in dono: oro, incenso e mirra. Per ricordare questo fatto narrato dall’evangelista Matteo (2, 1-12), è invalsa l’usanza di fare dei doni ai bambini nel giorno di questa festività. E sono proprio i bambini di tenera età che “concretizzano”, per così dire, i fatti, le azioni ed i concetti astratti. Perciò la Befana venne raffigurata come una vecchia benefica che s’introduce per il camino del focolare e porta loro dei doni durante la notte dell’Epifania. Befana di conseguenza passò a designare i regali stessi. Ma dato l’aspetto vecchio di questo personaggio, a volte si aggiunge il significato peggiorativo di “donna vecchia e brutta”.
La maràntega
Il primo significato di maràntega nei dialetti veneti è “incubo”. Si tratta di una parola composta, il cui primo elemento è mara (derivato dall’alto tedesco), “incubo”. Il secondo elemento è antola che va associato al veneziano obsoleto àntola, “incubo”. Si tratta quindi di una superposizione di due parole di diversa origine ma con lo stesso significato 6.
Per estensione si dice maràntega ad una donna vecchia e brutta. Vedasi sopra il significato peggiorativo di “befana”. Inoltre si applica pure al temporale. Esempio: Vien su la maràntega, si avvicina la burrasca, preceduta da lampi e tuoni.
La fràcola
La fràcola è l’incubo, ossia il senso di affanno e di apprensione provocato da sogni che spaventano e angosciano. È l’equivalente del francese cauchemar, parola composta di due elementi; il primo, cauche, deriva dal latino calcare, “stringere, pigiare, torchiare”, analogo al verbo dialettale fracar; il secondo elemento mar deriva dall’alto tedesco mare, “strega” 7.
La fràcola viene raffigurata come una donna cattiva, ossia una strega che si diverte saltando sul petto delle persone, dando loro la sensazione di soffocamento. Si tratta perciò della personificazione della cattiva digestione che provoca sensazioni sgradevoli al dormiente.
La mare de San Piero
La mare de San Piero designa i temporali piuttosto violenti che si producono intorno alla festa di San Pietro, 29 giugno. Questo fenomeno atmosferico ha dato origine al proverbio “Co bròntola la mare de San Piero, brusa l’ulivo e impissa el cero”.
I Vangeli non parlano della madre di San Pietro, bensì della suocera dell’apostolo che fu sanata da Gesù, e non le si attribuiscono poteri malefici. Ci si chiede quindi come potè sorgere la leggenda popolare che diede questa designazione al fenomeno atmosferico proprio dell’estate.
Come si è detto a proposito di fràcola, la parola dell’alto tedesco mara, “incubo” venne confusa o si sovrappose a mare, “madre”, derivata dal latino matrem, madre, nome comune di persona. Perciò la personificazione del fenomeno atmosferico risultò facile.
Nel folklore friulano ci sono molte leggende e favole relative alla Mari di San Pieri, la quale viene descritta come una donna cattiva e molto invidiosa (une invidiosate), di lì il detto “invidiôs come la mari di San Pieri”.
In questo caso si è passati dall’idea sgradevole del temporale che reca danni, a quella altrettanto sgradevole di “rancore” e “astio” “invidia” per la fortuna e felicità o le qualità altrui, spesso uniti al desiderio che tutto ciò si trasformi in male.
Scarampàna
Scarampàna deriva da carampàna, sostantivo femminile, al quale si è aggiunto il prefisso s- con valore intensivo o rafforzativo.
Carampàna, a sua volta, deriva dal nome di una calle di Venezia, chiamata “Cà Rampana”, ossia casa dei Rampàni, nome dei proprietari. In detta casa alloggiavano le prostitute vecchie e brutte che ormai non esercitavano quel triste mestiere o tuttalpiù si prestavano come ruffiane.
Cà Rampàni era un luogo fuori mano, poco accogliente e, per ovvie ragioni, lontano alle chiese. Quindi una vecia carampàna prese il significato di “vecchia brutta e decrepita”. La s- iniziale ha un valore intensivo.
Dall’idea sgradevole di bruttezza si passa a quella ugualmente sgradita di “rimprovero”. Di lì deriva il detto: “Me ga tocà a mi sentir tante scarampiàne”, è toccato a me sentire tanti rimproveri (o sgridate, rabbuffi, reprimende)8.
NOTE
1) ETTORE BUSETTO. La Bossina, a cura di Giosuè Chiaradia, Propordenone, Dicembre 1970, p.149.
2) GIOVANNI MEO ZILIO – ETTORE ROSSI. El elemento italiano en el habla de Buenos Aires y Montevideo. Firenze, Valmartina Editore, 1970, p.51).
3) GIULIO ANDREA PIRONA – ERCOLE CARLETTI – GIOV. BATT. CORGNALI. Il Nuovo Pirona. Udine, Arturo Bosetti Editore e Stampatore, 1935.
4) O. BLOCH et W. von WARTBURG, Dictionnarie étymolgique de la langue française. Paris, Presses Univeritaires de France,1960.
5) CARLO BATTISTI – GIOVANNI ALESSIO, Dizionario etimologico italiano, Firenze, 1950 e segg.
6) G. F. TURATO – D. DURANTE, Vocabolario etimologico veneto-italiano, Battaglia Terme (Padova), Casa Editrice “La Galiverna”, 1978.
7) O. BLOCH, op.cit.
8) G. F. TURATO, op.cit.
Il nuovo numero di Bisiacaria 2009
Acb, presentata la 26ª edizione di Bisiacaria
(Messaggero Veneto — 13 gennaio 2009 pagina 08)
MONFALCONE.
E’ arrivato alla 26ª edizione "Bisiacaria", numero unico edito dall’Associazione culturale bisiaca, presentato al caffè Inglese. Presenti all’incontro, oltre a un folto e attento pubblico, la presidente dell’associazione Acb, Marina Dorsi, il direttore responsabile, Fabio Del Bello, Fabio Favretto, curatore delle manifestazioni del caffè Inglese, e il vice-sindaco del Comune di Monfalcone, Silvia Altran, che ha valutato positivamente l’attività dell’associazione bisiaca e la realizzazione di questo volume, che si inserisce nell’onda delle ricorrenze del centenario dello stabilimento navalmeccanico di Panzano. Ben 168 le pagine del volume edizione 2009, che si dividono tra saggi storici, ricerche, memorie e un bel corredo iconografico, con scritti in bisiaco in prosa e in versi. Hanno attivamente partecipato alla realizzazione del volume, pubblicato grazie ai contributi della Regione, Carlo D’Agostino, Rino Romano, Alessandro Turrini, Andrea Bruciati, Fabio Favretto, Fabio Del Bello, Massimo Palmieri, Marina Righi, Marina Dorsi, Marco Tardivo, Mario Furlan, Ivan Crico, Amerigo Visintini, Livio Glavich, Pino Scarel, Marina Zucco, Cesare Zorzin e Mauro Casasola. Gli interventi parlano di storia dell’aeronautica, della costruzione dei sommergibili, del cantiere navale ricordando con solidarietà gli operai della Grande fabbrica monfalconese nei momenti difficili della crisi negli anni ’80, delle memorie recuperate dagli studenti delle scuole superiori della città. Viene proposta anche la rilettura del romanzo “La tuta gialla”, di Nordio Zorzenon, edita nel 1971, e vari testi in bisiaco. Correda il volume l’indice analitico di “Bisiacaria” dal 1983 al 2008 che, attraverso macro-aree tematiche, permetterà di ricercare autore, titolo, pagina e annata di ogni articolo pubblicato in 25 anni; un modo per rendere anche merito a tutti i collaboratori che in questo lungo periodo hanno contribuito al miglioramento della qualità della rivista. La copertina riproduce il Cantiere navale di Monfalcone nel 1955, acquerello dell’architetto triestino Mario Zocconi, gentilmente concesso dalla famiglia.
(Messaggero Veneto — 13 gennaio 2009 pagina 08)
MONFALCONE.
E’ arrivato alla 26ª edizione "Bisiacaria", numero unico edito dall’Associazione culturale bisiaca, presentato al caffè Inglese. Presenti all’incontro, oltre a un folto e attento pubblico, la presidente dell’associazione Acb, Marina Dorsi, il direttore responsabile, Fabio Del Bello, Fabio Favretto, curatore delle manifestazioni del caffè Inglese, e il vice-sindaco del Comune di Monfalcone, Silvia Altran, che ha valutato positivamente l’attività dell’associazione bisiaca e la realizzazione di questo volume, che si inserisce nell’onda delle ricorrenze del centenario dello stabilimento navalmeccanico di Panzano. Ben 168 le pagine del volume edizione 2009, che si dividono tra saggi storici, ricerche, memorie e un bel corredo iconografico, con scritti in bisiaco in prosa e in versi. Hanno attivamente partecipato alla realizzazione del volume, pubblicato grazie ai contributi della Regione, Carlo D’Agostino, Rino Romano, Alessandro Turrini, Andrea Bruciati, Fabio Favretto, Fabio Del Bello, Massimo Palmieri, Marina Righi, Marina Dorsi, Marco Tardivo, Mario Furlan, Ivan Crico, Amerigo Visintini, Livio Glavich, Pino Scarel, Marina Zucco, Cesare Zorzin e Mauro Casasola. Gli interventi parlano di storia dell’aeronautica, della costruzione dei sommergibili, del cantiere navale ricordando con solidarietà gli operai della Grande fabbrica monfalconese nei momenti difficili della crisi negli anni ’80, delle memorie recuperate dagli studenti delle scuole superiori della città. Viene proposta anche la rilettura del romanzo “La tuta gialla”, di Nordio Zorzenon, edita nel 1971, e vari testi in bisiaco. Correda il volume l’indice analitico di “Bisiacaria” dal 1983 al 2008 che, attraverso macro-aree tematiche, permetterà di ricercare autore, titolo, pagina e annata di ogni articolo pubblicato in 25 anni; un modo per rendere anche merito a tutti i collaboratori che in questo lungo periodo hanno contribuito al miglioramento della qualità della rivista. La copertina riproduce il Cantiere navale di Monfalcone nel 1955, acquerello dell’architetto triestino Mario Zocconi, gentilmente concesso dalla famiglia.
sabato 24 gennaio 2009
Il poeta di Rovigno Ligio Zanini nel ricordo di Claudio Magris
LIGIO ZANINI, IL POETA E IL GABBIANO FILIPPO
di CLAUDIO MAGRIS
Il primo luglio, all' ospedale di Pola, stroncato a sessantasei anni da una malattia piu' forte della sua sanguigna e indomita vitalita' che aveva resistito a tremende violenze della storia, e' morto Ligio Zanini, un poeta di grande originalita' e freschezza creativa, di cui soltanto pochi, in Italia . fra i quali Franco Loi e Vanni Scheiwiller . si erano veramente accorti. Con lui si e' spenta una voce che ha espresso . in assoluta autonomia e senza alcuna chiusura locale, ma con totale apertura al mondo . il dramma dell' Istria nell' ultimo mezzo secolo, un dramma nel quale si sono rispecchiati, su una scala geograficamente ridotta ma storicamente esemplare, le tensioni, le lacerazioni, i disinganni, le contraddizioni, le contese del mondo. Prima di essere poeta nella sua affascinante lirica, Ligio Zanini lo e' stato nella vita, che egli ha vissuto con passione, ingenuita' , onesta' incorruttibile, coraggio e con una straordinaria capacita' di incantarsi per le cose nonostante le ingiustizie e le sofferenze patite e di pagare senza batter ciglio il prezzo delle proprie illusioni. Nato a Rovigno, l' incantevole citta' istriana, nel 1927 e incarnazione . nel suo modo di essere e di sentire, nella musica della sua poesia e della sua vita . di quella plurisecolare civilta' veneta, della sua gentilezza e robustezza, Zanini e' stato anti fascista, accesamente avverso alla persecutoria politica anti slava del fascismo italiano. Alla fine della seconda guerra mondiale, ha creduto nella Jugoslavia titoista ossia nel comunismo quale superamento dei dissidi nazionali in una piu' alta fraternita' . Nei tragici momenti del dopoguerra, quando si decideva il destino dell' Istria e le commissioni internazionali arrivavano in quelle terre per cercare di capirne la composizione etnica, Zanini, come mi raccontava egli stesso, pur essendo italiano era fra coloro che gridavano in croato "Vogliamo Tito" durante le visite di quelle delegazioni. Poco dopo l' esodo, che vide decine di migliaia di italiani andarsene dall' Istria, Zanini si accorse ben presto che l' insegna dell' internazionalismo mascherava, in quel momento di riscossa, un nazionalismo slavo indiscriminatamente violento verso gli italiani. Egli stesso conobbe l' inferno del lager di Goli Otok, l' isola nella quale il governo jugoslavo, dopo la grande rottura con Stalin e nel timore di colpi di Stato stalinisti, fece deportare, sottoponendoli a violenze e sevizie d' ogni genere, avversari veri e presunti di ogni tendenza, anche comunisti libertari come lui. Uscito dopo tre anni da quell' incubo, Zanini visse, specialmente all' inizio, fra varie difficolta' ; avrebbe potuto recarsi in Italia, dove avrebbe avuto un' esistenza diversa, ma non lo fece perche' , come mi disse, non gli pareva giusto mangiare nel piatto in cui aveva sputato, e anche perche' sentiva il dovere di restare, di rendere testimonianza della sua civilta' e della sua gente la' dove era piu' difficile, nella desolata situazione dell' Istria, certo piu' dura, per gli italiani rimasti, della pur ben dura condizione degli esuli che l' avevano abbandonata. Dopo aver ricoperto per alcuni anni vari incarichi didattici presso le scuole italiane . era infatti maestro elementare . si ritiro' , in totale indipendenza, facendo il pescatore e sopravvivendo grazie a cio' che pescava uscendo ogni mattino con la sua barca in quel mare rovignese e fra le sue isole di una bellezza assoluta e dedicandosi alla poesia. Le sofferenze patite non avevano scalfito la sua serenita' , la sua fanciullesca freschezza, ne' avevano turbato il suo sentire sovranazionale: avverso al nazionalismo slavo, sino al punto di dimettersi nel 1990 dall' Associazione degli scrittori della Croazia quando essa aveva assunto la denominazione etnicamente restrittiva "Associazione degli scrittori croati" e difensore della identita' italiana, Zanini e' rimasto estraneo a ogni risentimento nazionale italiano e ha visto nel libero dialogo fra italiani e slavi il suo mondo. Un anno fa, sono stato in barca con lui, a Rovigno. Mentre remava o attraccava, guardavo i suoi gesti forti e tranquilli, lo sguardo azzurro e fermo plasmato dal mare, e pensavo che quell' uomo, quel pescatore, era passato interiormente indenne attraverso delusioni, sofferenze e attraverso le violenze fisiche del lager di Goli Otok, che egli ha descritto nel suo romanzo Martin Muma, del 1990, edito dalla rivista La Battana di Fiume, affresco epico di quella sua storia, che e' insieme storia corale della sua gente e apologo di speranze, utopie e delusioni di un movimento di portata mondiale. Da anni, Zanini viveva sul mare, con le vele, i pesci e i gabbiani, quel gabbiano File' ipo (Filippo) col quale egli dialoga nelle sue poesie. Nelle sue liriche in dialetto rovignese . uscite in varie raccolte e di recente nel volume Cun la prua al vento, ed Scheiwiller . l' esperienza storica, la tensione morale, l' avventura nel tempo sono presenti ma fuse nel non tempo del mare, di una vita guardata faccia a faccia nella sua essenza. Quando non e' folclore vernacolo, il dialetto puo' essere un linguaggio per eccellenza della poesia, piu' resistente agli ingranaggi della rettorica. Zanini non si disinteressava certo di politica, seguiva con passione gli eventi turbinosi, pieni di speranza e di minaccia, della sua terra, ma quando gli avevano chiesto di candidarsi, aveva detto che lui, come altri suoi coetanei, apparteneva a una generazione che aveva fatto il suo tempo e che, a prescindere dai suoi meriti ed errori, doveva farsi da parte. E prendeva la barca e andava al largo, come ha fatto adesso.
(Pagina 19, 11 luglio 1993 - Corriere della Sera)
BIO- BIBLIOGRAFIA DI LIGIO ZANINI
Ligio Zanini è nato a Rovigno d'Istria il 30 settembre 1927 - morto il 1. luglio 1993 nell'ospedale di Pola stroncato a 65 anni da un male incurabile. Compì gli studi presso l'Istituto Magistrale di Pola, anche se giovanissimo partecipò alla lotta partigiana tra le file comuniste.
Dal 1947 al 1948 fu referente per le scuole italiane presso il Dipartimento all'istruzione del Comitato Popolare.
In seguito all'espulsione della Jugoslavia dal Cominform con l'accusa di deviazionismo venne chiamato, come tutti gli altri esponenti comunisti, a schierarsi o con Tito o con Stalin.
Lui, come disse in una intervista televisiva, dichiarò d'esser stato onorato d'aver combattuto con loro i nazi-fascisti, ma che d'allora in avanti avrebbe deciso soltanto con la sua testa (quindi nè con Tito nè con Stalin) e rimise la tessera del partito. Pertanto nel gennaio del 1949 fu tra i primi a subire la repressione titina, finendo incarcerato nel terribile lager comunista di Goli Otok (Isola Calva).
Venne rimesso in libertà soltanto nel 1952 e fu costretto a fare il magazziniere nel cantiere "Stella Rossa" di Pola rimanendo un sorvegliato speciale.
Grazie all'aiuto di alcuni intellettuali polesani riuscì nel 1956 ad ottenere un posto da ragioniere nell'impresa commerciale "Siana" di Pola.
Soltanto nel '59, finito il suo periodo di quarantena, gli fu consentito di dedicarsi all'insegnamento e venne mandato a Salvore con il compito di riaprire la locale scuola italiana, chiusa per decisione politiche nel 1953. A Salvore, ove rimase cinque anni, Zanini si dedicò con passione alla diffusione della cultura italiana fondandovi il Circolo Italiano di Cultura.
Tornato a Rovigno fu nuovamente costretto per vivere a dedicarsi alla contabilità commerciale. Ripresi gli studi si laureò a Pola in Pedagogia e quindi riprese anche la sua attività d'insegnante in qualità di maestro a Valle d'Istria. Ritiratosi infine dall'insegnamento ritornò a Rovigno ove si dedicò esclusivamente alle sue due passioni: la poesia e la pesca.
Membro dal 1970 dell'Associazione degli scrittori della Croazia, vi si dimise nel 1990 quando questa assunse, assecondando il nascente nazionalismo croato, il nome di Associazione degli scrittori croati.
Con la sua poesia Ligio Zanini riuscì ad emergere come la principale voce poetica dell'Istria, raggiungendo una certa notorietà anche in campo nazionale, allacciando tra l'altro una forte e durevole amicizia con il grande poeta di Grado, Biagio Marin, e con tanti altri intellettuali italiani tra cui il triestino Claudio Magris.
Da molti, come ad esempio da Bruno Maier, la sua opera viene accostata a quella di Biagio Marin, però dove nel poeta di Grado il canto si fa introspezione lirica in una visione rasserenata della vita nell'abbraccio finale di Dio, in Ligio Zanini, anche il discorso che in apparenza sembra il più introspettivo e lirico, in realtà cela nel suo fondo l'amaro destino dei rovignesi: o stranieri nella loro città o profughi per il mondo senza più il contatto ravvivante della propria terra madre.
In questa prospettiva l'unica nota rasserenante è il mare, la natura di Rovigno che, seppure anch'essa mutata, per lo meno al poeta parla lo stesso linguaggio di sempre.
Però anche la natura, i pesci, i gabbiani diventano metafora, come nella poesia "Sensa nom", della sua straziata condizione esistenziale, simbolo a sua volta di quella di tutto un popolo.
Proprio grazie a questo suo afflato universalistico la sua poesia, seppure nel dialetto istrioto di Rovigno d'Istria, riesce a superare la ristretta cerchia del bozzetto flocloristico per arrivare alle vette della vera poesia.
Bibliografia:
Moussoli a scarcaciuò, Ed. Alut, Trieste 1965
Buléistro, Scheiwiller, Milano 1966
Mar quito e alanbastro, in "Istria Nobilissima", U.I.I.F. - U.P.T., Trieste 1968
Tiera viecia-stara, in "Istria Nobilissima", UIIF-UPT, Trieste 1970
Favalando cul cucal Filéipo - In stu canto da paradéisu, N. 1 della collana Biblioteca Istriana edito a cura UIIF-UPT, dalla casa Ed. LINT di Trieste dalla Erredici di Padova 1979 con prefazione di Bruno Maier. opera che ha avuto anche una edizione in serbo-croato: Razgovor s galebom Filipom, Fiume 1983
Sul sico de la Muorto Sagonda, in "Diverse lingue", Udine 1990
Cun la prua al vento. Poesie nel dialetto di Rovigno d'Istria, prefazione di Franco Loi e una lettera di Biagio Marin, nella collana Libri Scheiwiller, Milano 1993.
A queste opere di poesia vi è da aggiungere il romanzo autobiografico:
"Martin Muma" edito a cura della rivista letteraria "La Battana", nn. 95-96 Fiume 1990
ELIGIO ZANINI (Rovigno d'Istria, 1927-1993) was born in Rovigno (Istria) and trained to be a teacher at the Istituto Magistrale di Pola. As a very young man, he fought as a partisan against the Fascists; in January 1949 he was one of the first to suffer repression under Tito and was imprisoned in the communist lager, Goli Otok (Isola Calva). When he was freed in 1952, he found work as an accountant. He was not allowed to return to teaching until 1959. For five years he taught in Salvore, then returned to Rovigno where he worked as an accountant to make ends meet and earned a University degree in Education at Pola before teaching in a school in Valle d'Istria and finally returning to Rovigno where he retired to write poetry in the Istriot dialect of Rovigno and to fish.
Source:
http://www.smith.edu/metamorphoses/biographiesw-z.html/
di CLAUDIO MAGRIS
Il primo luglio, all' ospedale di Pola, stroncato a sessantasei anni da una malattia piu' forte della sua sanguigna e indomita vitalita' che aveva resistito a tremende violenze della storia, e' morto Ligio Zanini, un poeta di grande originalita' e freschezza creativa, di cui soltanto pochi, in Italia . fra i quali Franco Loi e Vanni Scheiwiller . si erano veramente accorti. Con lui si e' spenta una voce che ha espresso . in assoluta autonomia e senza alcuna chiusura locale, ma con totale apertura al mondo . il dramma dell' Istria nell' ultimo mezzo secolo, un dramma nel quale si sono rispecchiati, su una scala geograficamente ridotta ma storicamente esemplare, le tensioni, le lacerazioni, i disinganni, le contraddizioni, le contese del mondo. Prima di essere poeta nella sua affascinante lirica, Ligio Zanini lo e' stato nella vita, che egli ha vissuto con passione, ingenuita' , onesta' incorruttibile, coraggio e con una straordinaria capacita' di incantarsi per le cose nonostante le ingiustizie e le sofferenze patite e di pagare senza batter ciglio il prezzo delle proprie illusioni. Nato a Rovigno, l' incantevole citta' istriana, nel 1927 e incarnazione . nel suo modo di essere e di sentire, nella musica della sua poesia e della sua vita . di quella plurisecolare civilta' veneta, della sua gentilezza e robustezza, Zanini e' stato anti fascista, accesamente avverso alla persecutoria politica anti slava del fascismo italiano. Alla fine della seconda guerra mondiale, ha creduto nella Jugoslavia titoista ossia nel comunismo quale superamento dei dissidi nazionali in una piu' alta fraternita' . Nei tragici momenti del dopoguerra, quando si decideva il destino dell' Istria e le commissioni internazionali arrivavano in quelle terre per cercare di capirne la composizione etnica, Zanini, come mi raccontava egli stesso, pur essendo italiano era fra coloro che gridavano in croato "Vogliamo Tito" durante le visite di quelle delegazioni. Poco dopo l' esodo, che vide decine di migliaia di italiani andarsene dall' Istria, Zanini si accorse ben presto che l' insegna dell' internazionalismo mascherava, in quel momento di riscossa, un nazionalismo slavo indiscriminatamente violento verso gli italiani. Egli stesso conobbe l' inferno del lager di Goli Otok, l' isola nella quale il governo jugoslavo, dopo la grande rottura con Stalin e nel timore di colpi di Stato stalinisti, fece deportare, sottoponendoli a violenze e sevizie d' ogni genere, avversari veri e presunti di ogni tendenza, anche comunisti libertari come lui. Uscito dopo tre anni da quell' incubo, Zanini visse, specialmente all' inizio, fra varie difficolta' ; avrebbe potuto recarsi in Italia, dove avrebbe avuto un' esistenza diversa, ma non lo fece perche' , come mi disse, non gli pareva giusto mangiare nel piatto in cui aveva sputato, e anche perche' sentiva il dovere di restare, di rendere testimonianza della sua civilta' e della sua gente la' dove era piu' difficile, nella desolata situazione dell' Istria, certo piu' dura, per gli italiani rimasti, della pur ben dura condizione degli esuli che l' avevano abbandonata. Dopo aver ricoperto per alcuni anni vari incarichi didattici presso le scuole italiane . era infatti maestro elementare . si ritiro' , in totale indipendenza, facendo il pescatore e sopravvivendo grazie a cio' che pescava uscendo ogni mattino con la sua barca in quel mare rovignese e fra le sue isole di una bellezza assoluta e dedicandosi alla poesia. Le sofferenze patite non avevano scalfito la sua serenita' , la sua fanciullesca freschezza, ne' avevano turbato il suo sentire sovranazionale: avverso al nazionalismo slavo, sino al punto di dimettersi nel 1990 dall' Associazione degli scrittori della Croazia quando essa aveva assunto la denominazione etnicamente restrittiva "Associazione degli scrittori croati" e difensore della identita' italiana, Zanini e' rimasto estraneo a ogni risentimento nazionale italiano e ha visto nel libero dialogo fra italiani e slavi il suo mondo. Un anno fa, sono stato in barca con lui, a Rovigno. Mentre remava o attraccava, guardavo i suoi gesti forti e tranquilli, lo sguardo azzurro e fermo plasmato dal mare, e pensavo che quell' uomo, quel pescatore, era passato interiormente indenne attraverso delusioni, sofferenze e attraverso le violenze fisiche del lager di Goli Otok, che egli ha descritto nel suo romanzo Martin Muma, del 1990, edito dalla rivista La Battana di Fiume, affresco epico di quella sua storia, che e' insieme storia corale della sua gente e apologo di speranze, utopie e delusioni di un movimento di portata mondiale. Da anni, Zanini viveva sul mare, con le vele, i pesci e i gabbiani, quel gabbiano File' ipo (Filippo) col quale egli dialoga nelle sue poesie. Nelle sue liriche in dialetto rovignese . uscite in varie raccolte e di recente nel volume Cun la prua al vento, ed Scheiwiller . l' esperienza storica, la tensione morale, l' avventura nel tempo sono presenti ma fuse nel non tempo del mare, di una vita guardata faccia a faccia nella sua essenza. Quando non e' folclore vernacolo, il dialetto puo' essere un linguaggio per eccellenza della poesia, piu' resistente agli ingranaggi della rettorica. Zanini non si disinteressava certo di politica, seguiva con passione gli eventi turbinosi, pieni di speranza e di minaccia, della sua terra, ma quando gli avevano chiesto di candidarsi, aveva detto che lui, come altri suoi coetanei, apparteneva a una generazione che aveva fatto il suo tempo e che, a prescindere dai suoi meriti ed errori, doveva farsi da parte. E prendeva la barca e andava al largo, come ha fatto adesso.
(Pagina 19, 11 luglio 1993 - Corriere della Sera)
BIO- BIBLIOGRAFIA DI LIGIO ZANINI
Ligio Zanini è nato a Rovigno d'Istria il 30 settembre 1927 - morto il 1. luglio 1993 nell'ospedale di Pola stroncato a 65 anni da un male incurabile. Compì gli studi presso l'Istituto Magistrale di Pola, anche se giovanissimo partecipò alla lotta partigiana tra le file comuniste.
Dal 1947 al 1948 fu referente per le scuole italiane presso il Dipartimento all'istruzione del Comitato Popolare.
In seguito all'espulsione della Jugoslavia dal Cominform con l'accusa di deviazionismo venne chiamato, come tutti gli altri esponenti comunisti, a schierarsi o con Tito o con Stalin.
Lui, come disse in una intervista televisiva, dichiarò d'esser stato onorato d'aver combattuto con loro i nazi-fascisti, ma che d'allora in avanti avrebbe deciso soltanto con la sua testa (quindi nè con Tito nè con Stalin) e rimise la tessera del partito. Pertanto nel gennaio del 1949 fu tra i primi a subire la repressione titina, finendo incarcerato nel terribile lager comunista di Goli Otok (Isola Calva).
Venne rimesso in libertà soltanto nel 1952 e fu costretto a fare il magazziniere nel cantiere "Stella Rossa" di Pola rimanendo un sorvegliato speciale.
Grazie all'aiuto di alcuni intellettuali polesani riuscì nel 1956 ad ottenere un posto da ragioniere nell'impresa commerciale "Siana" di Pola.
Soltanto nel '59, finito il suo periodo di quarantena, gli fu consentito di dedicarsi all'insegnamento e venne mandato a Salvore con il compito di riaprire la locale scuola italiana, chiusa per decisione politiche nel 1953. A Salvore, ove rimase cinque anni, Zanini si dedicò con passione alla diffusione della cultura italiana fondandovi il Circolo Italiano di Cultura.
Tornato a Rovigno fu nuovamente costretto per vivere a dedicarsi alla contabilità commerciale. Ripresi gli studi si laureò a Pola in Pedagogia e quindi riprese anche la sua attività d'insegnante in qualità di maestro a Valle d'Istria. Ritiratosi infine dall'insegnamento ritornò a Rovigno ove si dedicò esclusivamente alle sue due passioni: la poesia e la pesca.
Membro dal 1970 dell'Associazione degli scrittori della Croazia, vi si dimise nel 1990 quando questa assunse, assecondando il nascente nazionalismo croato, il nome di Associazione degli scrittori croati.
Con la sua poesia Ligio Zanini riuscì ad emergere come la principale voce poetica dell'Istria, raggiungendo una certa notorietà anche in campo nazionale, allacciando tra l'altro una forte e durevole amicizia con il grande poeta di Grado, Biagio Marin, e con tanti altri intellettuali italiani tra cui il triestino Claudio Magris.
Da molti, come ad esempio da Bruno Maier, la sua opera viene accostata a quella di Biagio Marin, però dove nel poeta di Grado il canto si fa introspezione lirica in una visione rasserenata della vita nell'abbraccio finale di Dio, in Ligio Zanini, anche il discorso che in apparenza sembra il più introspettivo e lirico, in realtà cela nel suo fondo l'amaro destino dei rovignesi: o stranieri nella loro città o profughi per il mondo senza più il contatto ravvivante della propria terra madre.
In questa prospettiva l'unica nota rasserenante è il mare, la natura di Rovigno che, seppure anch'essa mutata, per lo meno al poeta parla lo stesso linguaggio di sempre.
Però anche la natura, i pesci, i gabbiani diventano metafora, come nella poesia "Sensa nom", della sua straziata condizione esistenziale, simbolo a sua volta di quella di tutto un popolo.
Proprio grazie a questo suo afflato universalistico la sua poesia, seppure nel dialetto istrioto di Rovigno d'Istria, riesce a superare la ristretta cerchia del bozzetto flocloristico per arrivare alle vette della vera poesia.
Bibliografia:
Moussoli a scarcaciuò, Ed. Alut, Trieste 1965
Buléistro, Scheiwiller, Milano 1966
Mar quito e alanbastro, in "Istria Nobilissima", U.I.I.F. - U.P.T., Trieste 1968
Tiera viecia-stara, in "Istria Nobilissima", UIIF-UPT, Trieste 1970
Favalando cul cucal Filéipo - In stu canto da paradéisu, N. 1 della collana Biblioteca Istriana edito a cura UIIF-UPT, dalla casa Ed. LINT di Trieste dalla Erredici di Padova 1979 con prefazione di Bruno Maier. opera che ha avuto anche una edizione in serbo-croato: Razgovor s galebom Filipom, Fiume 1983
Sul sico de la Muorto Sagonda, in "Diverse lingue", Udine 1990
Cun la prua al vento. Poesie nel dialetto di Rovigno d'Istria, prefazione di Franco Loi e una lettera di Biagio Marin, nella collana Libri Scheiwiller, Milano 1993.
A queste opere di poesia vi è da aggiungere il romanzo autobiografico:
"Martin Muma" edito a cura della rivista letteraria "La Battana", nn. 95-96 Fiume 1990
ELIGIO ZANINI (Rovigno d'Istria, 1927-1993) was born in Rovigno (Istria) and trained to be a teacher at the Istituto Magistrale di Pola. As a very young man, he fought as a partisan against the Fascists; in January 1949 he was one of the first to suffer repression under Tito and was imprisoned in the communist lager, Goli Otok (Isola Calva). When he was freed in 1952, he found work as an accountant. He was not allowed to return to teaching until 1959. For five years he taught in Salvore, then returned to Rovigno where he worked as an accountant to make ends meet and earned a University degree in Education at Pola before teaching in a school in Valle d'Istria and finally returning to Rovigno where he retired to write poetry in the Istriot dialect of Rovigno and to fish.
Source:
http://www.smith.edu/metamorphoses/biographiesw-z.html/
venerdì 23 gennaio 2009
Le parlate istrovenete
(da istria.net)
La storia dell'Istria nei suoi tre millenni è molto complessa. Vi è accertata la presenza dell'uomo già nel periodo paleolitico, nella preistoria. La storia conserva la memoria dell'immigrazione dei Veneti all'epoca della guerra troiana. Nel V secolo si verifica l'invasione dei Celti "gens valida et fera" come dice Appiano. Segue la conquista romana nel 177 a.C. I Romani fondarono Aquileia sulla soglia "delle porte dell'Italia" e da li iniziò ad irradiare una profonda romanizzazione.
Dunque su un substrato preromano in Istria (venetico, celtico o preindoeuropeo) si sovrappose il latino d'Aquileia. Dal latino di provincia derivano i volgari romanzi istriani: i dialetti istrioti a sud dell'Istria e un idioma di tipo friuleggiante a nord che però potrebbe anche essere non autoctono, ma importato dal Friuli. Con il crollo dell'impero romano d'occidente nel 476 iniziarono le invasioni barbariche. Si susseguono gli Ostrogoti, i Bizantini, í Longobardi, i Franchi che introdussero il sistema feudale, però non scossero la romanizzazione. Gli Slavi a partire dal VII secolo sono da considerarsi un'eccezione. L'Istria ebbe rapporti amichevoli e di simpatia con Venezia. L'Adriatico congiungeva le due popolazioni. Gli Istriani iniziarono le dedizione alla Repubblica di Venezia nel 932 con Capodistria. Nel 1420 i Veneziani posero fine al potere secolare dei patriarchi d'Aquileia. I primi estesero così la loro signoria su tutto il Veneto. Il dominio perdurerà fino al 1797.
Questo mutamento storico, il dominio della repubblica di Venezia sull'Istria, si manifesterà anche nel cambio linguistico. "Eguale mutamento aveva subito anche il volgare istriano. All'orecchio di Dante, abituato alla dolcezza della parlata toscana, il nostro volgare italico doveva suonare "di accenti aspri e crudeli". Ma col progresso del tempo, di mano in mano che i contatti con Venezia divennero sempre più frequenti ed intimi, l'influenza del dialetto veneto si fece sentire anche nei comuni istriani, ove le famiglie dei cittadini andavano a gara di avvicinarsi anche nel linguaggio alla "Dominante". Fu così che, ove maggiori furono i contatti fra le due rive dell'Adriatico o maggiore la possibilità di subirne l'influenza maggiore fu l'innesto del "veneziano" nel primitivo volgare istriano; e dalla loro reciproca fusione ed assimilazione ebbero vita varie parlate cui si scinde la nostra regione:
il ladino ritrattosi adesso al Friuli ma dominante una volta a Trieste ed a Muggia;
l'istriano che si parla a Rovigno, Dignano, Gallesano, Fasana e Valle;
i1 veneto in tutte le altre località dell'Istria". (Nota 1).
Bisogna tenere presente che, essendo stata l'Istria spopolata e ripopolata, il fenomeno del cambio linguistico è molto complesso.
Le cause principali dello spopolamento del territorio istriano sono dovute alle epidemie di peste e di malaria che decimarono la popolazione dal XIII al XVII secolo. Si ebbero in totale 41 epidemie pestilenziali; la chiamavano il "mal de la Giandussa". Incessantemente l'Istria era colpita pure da febbri malariche. La mancanza di popolazione si fece sentire anche a causa delle lunghe, ripetute ed ostinate guerre che Venezia conduceva contro i patriarchi di Aquileia, Genova, gli Ungheri, l'Austria, i Turchi, la contea di Pisino, i conti di Gorizia, gli Uscocchi. Le uccisioni di uomini erano accompagnate dalle devastazioni dei campi c dal saccheggiamento di animali. Nelle Commissioni ducali del 1375 sì legge: "L'Istria tutta può dirsi deserta". L' ultima grande epidemia infierì dal 1629 al 1631. Pola non era più una città, ma "il cadavere di una città".
Lo stato diresse l'immigrazione e la colonizzazione a partire dal 1500. Si tentò di ripopolare l'Istria con Italiani, Greci, Morlacchi, Albanesi, Montenegrini, Sloveni e Croati. Ci furono 102 momenti di colonizzazione registrati dal XV al XVII secolo.
Il ripopolamento ebbe riflessi linguistici importantissimi. Lo Czöernig studiò gli Slavi nel 1851 per incarico dell'Austria e li distinse in 17 gruppi linguistici. I nuovi coloni slavi vennero in contatto con gli abitanti delle città e la popolazione della campagna istriana divenne bilingue. "Nel meridione della penisola, dove l'elemento romanzo italiano prima del XVI secolo era predominante la colonizzazione significò l'avvio di quel processo che doveva portare alla formazione di due sfere culturali diverse e all'instaurazione tra loro di un "equilibrio" sui generis. Quando si parla di "equilibrio" tra la sfera culturale italiana e quella croata nell'Istria meridionale non s'intende sottolineare la presenza di una "validità" e di un "ruolo" uguali in ambito locale e in quello di più vasto respiro, ma innanzi tutto, il fatto dell'avvenuta impostazione di un equilibrio in senso di "acculturazione", per cui la più forte cultura italiana non riuscì ad assimilare quella più debole croata. II processo di "acculturazione" in Istria non si è concluso; i contatti e i rapporti tra "culture" etnicamente divergenti si sono mantenuti nei limiti di un "equiibrio" sui generis" (Nota 2).
L'appartenenza linguistìca dell'Istria nel secolo XVIII era costituita da tre comunità linguistiche: croata, italiana e slovena. Il processo di venetizzazione linguistica dell'Istria possiamo seguirlo nel tempo grosso modo in 3 fasi distinte.
La "prima fase" comprende alcuni secoli - dal X al XIII - nei quali Venezia in rapporti amichevoli o sconfitte con le città costiere istriane le lega a sé nel "vincolo di fedeltà". L'Istria costiera divenne politicamente veneziana e il veneziano lingua amministrativa. Ci fu una prima fase di coesistenza di due codici: quello veneziano e quello dei dialetti istriani preveneti. Sembra logico che il veneziano dal XIV al XV secolo era limitato a precise situazioni e funzioni.
La "seconda fase" di venetizzazione va dal XVI secolo alla prima metà del XIX secolo. E' in questo periodo, nel '500, che il toscano si impose come lingua nazionale sostituendo gradualmente i1 veneziano. Il veneziano divenne strumento di comunicazione elevata. Si fissò come koiné provinciale.
La "terza fase" vede l'indebolimento e la sconfitta politica ed economica della Serenissima. Il triestino, dialetto venezianeggiante, sostituì il tergestino, dialetto friuleggiante, nel XIX secolo. Nell'Istria si diffuse il modello linguistico triestino senza grosse difficoltà; quando Trieste diventa Porto Franco sostituì economicamente Venezia. "Ne1'800 il triestino divenne la guida della koinè veneta giuliana" (Nota 3). La terza venetizzazione è dunque segnata dall'interferenza del triestino sui dialetti veneti dell'Istria.
Nei primi dell'Ottocento alcune idee filosofiche innescarono una quantità di avvenimenti. Furono il Romanticismo e l'Idealismo filosofico tedesco a contrapporsi alla cultura classica greca e romana ripescando il proprio medioevo. L'Idealismo porta a pensare allo "spirito delle nazioni" (Hegel). Da questa idea scoppiano in Europa da una parte istanze demografiche, costituzionalistiche e dall'altra, l'Europa è percorsa da una tensione definita irredentistica. L'Austria doveva confrontarsi con l'irredentismo polacco, ungherese, italiano, croato. Le consapevolezze linguistiche cominciarono a fiorire da più parti. Si crearono situazioni di dinamismo conflittuale positivo. L'apporto del nuovo dinamismo del triestino si accompagnò all'espansione economica, che riaprì le grosse vie di comuncazione dell'Istria servendosi di un grosso volume di comunicazione dialettale. Nell'Istria occidentale ci fu la ricostituzione di una buona parte del continuum linguistico romanzo. Il dialetto veneziano-triestino riacquistò rapidamente tutto il suo prestigio. Gli italofoni acquistarono progressivamente terreno. I fenomeni di acculturazione e di bilinguismo non hanno implicato sempre il cambio linguistico. È proprio questa fluidità del confine etnicolinguistico che caratterizza la terza fase di venetizzazione dell'Istria.
Nel secolo XX l'Istria conobbe la stagione dei totalitarismi. L'Italia iniziò a condurre una politica di assimilazione dei croati e degli sloveni subito dopo il 1918. Si chiusero le scuole con lingua d'insegnamento croata e slovena. Dopo l'ascesa al potere del fascismo si vietò l'uso dello sloveno e del croato nell'amministrazione e nei tribunali. Si interruppe ogni attività sportiva e culturale in sloveno e croato. Vennero italianizzati quasi tutti i cognomi slavi. Tale politica già nel 1921 provocò la resistenza degli sloveni e croati. La seconda guerra mondiale e la divisione politica del territorio istriano ebbe come conseguenza l' esodo di buona parte della sua popolazione. La nuova congiuntura nazionale jugoslava esercitava una forte pressione ideologica sulla. popolazione, schierando le minoranze nazionali da una o dall'altra parte. Si arrivò cosi all'esodo massiccio degli italofoni. Oltre al continuum storico del dialetto istroveneto, qui tracciato, c'è l'ipotesi dell'autoctonia dei sistemi dialettali veneti in Istria, sostenuta dal Decarli. Questa tesi è respinta dal Crevatin, il quale sostiene che non sia scientifica. "Basti riflettere su questo banale elemento: "veneto" non equivale a "veneziano", nonostante l'uso promiscuo che si fa di queste designazioni, ed i dialetti istriani (non parlo di quelli istrioti, ovvìamente) sono di tipo scientificamente veneziano, guarda caso il dialetto di chi ha retto l' Istria tra il XIV e il XVIII secolo (Nota 4).
Note:
B. BENUSSI, L'Istria nei suoi due mìllenni di storia, Trieste, 1924,p.283.
M.BERTOSA, L'equilibrio nel processo di "acculturazìone" ìn Istria: tra interazioni e opposizioni, 1982/1983, p.282.
F. CREVATIN, "Per una storia della venetizzazione dell'Istria", Studi mediolatini e volgari, 1975, p.98.
IDEM, "Pagine di storia linguistica istriana", AMSI, vol. XXIV (1976), p. 317.
Bibliografia:
B. BENUSSI, L'Istria nei suoi due rnillenni di storia, Trieste, 1924.
M. BERTOSA, "L'equilibrio nel processo di "acculturazione" in Istria: tra interazìoni ed opposizioni',ACRS.voI.XIII (1982/83), pp. 273 -92.
G. BRANCALE-L.DECARLl, Istria, dialetti eprelstorta,Triestc, 1997.
M.R. CRRASUOLOPERTUSI "Il contributo dell'etimologia alla storia della neolatinità istriana",AMSI, voLXXXVIII (n.s.) (I99U), pp.187-251.
F. CREVATIN, "Per una storia della venetizzaziunc linguistica dell' lstria. Prospettive metodologiche per una sociolinguistica diacronica", Studi mediolatini e volgari, voLXXlll (1975), pp.59-99.
IDEM,"Pagine di storia linguistica istriana". AMSI, vol. XXIV (n. s.) (1976), pp. 39-50.
IDEM, "I dialetti veneti dell'Istria", Guida ai dialetti veneti, vol.IV (1982), pp.39-50.
D. DAROVEC, Rassegna di storia istriana. Biblioteca Annales, Koper/Capodistria, 1993.
L. DECARLI, Origine del dialetto veneto istriano, Trieste 1976.
IDEM, --Il veneto istriano, Guida ai dialetti veneti, vnLVll (1985), pp.91-125.
Fonte:
Marija Nedveš, "Il dialetto istroveneto", La Ricerca n. 31-32 settembre-dicembre 2001.
La storia dell'Istria nei suoi tre millenni è molto complessa. Vi è accertata la presenza dell'uomo già nel periodo paleolitico, nella preistoria. La storia conserva la memoria dell'immigrazione dei Veneti all'epoca della guerra troiana. Nel V secolo si verifica l'invasione dei Celti "gens valida et fera" come dice Appiano. Segue la conquista romana nel 177 a.C. I Romani fondarono Aquileia sulla soglia "delle porte dell'Italia" e da li iniziò ad irradiare una profonda romanizzazione.
Dunque su un substrato preromano in Istria (venetico, celtico o preindoeuropeo) si sovrappose il latino d'Aquileia. Dal latino di provincia derivano i volgari romanzi istriani: i dialetti istrioti a sud dell'Istria e un idioma di tipo friuleggiante a nord che però potrebbe anche essere non autoctono, ma importato dal Friuli. Con il crollo dell'impero romano d'occidente nel 476 iniziarono le invasioni barbariche. Si susseguono gli Ostrogoti, i Bizantini, í Longobardi, i Franchi che introdussero il sistema feudale, però non scossero la romanizzazione. Gli Slavi a partire dal VII secolo sono da considerarsi un'eccezione. L'Istria ebbe rapporti amichevoli e di simpatia con Venezia. L'Adriatico congiungeva le due popolazioni. Gli Istriani iniziarono le dedizione alla Repubblica di Venezia nel 932 con Capodistria. Nel 1420 i Veneziani posero fine al potere secolare dei patriarchi d'Aquileia. I primi estesero così la loro signoria su tutto il Veneto. Il dominio perdurerà fino al 1797.
Questo mutamento storico, il dominio della repubblica di Venezia sull'Istria, si manifesterà anche nel cambio linguistico. "Eguale mutamento aveva subito anche il volgare istriano. All'orecchio di Dante, abituato alla dolcezza della parlata toscana, il nostro volgare italico doveva suonare "di accenti aspri e crudeli". Ma col progresso del tempo, di mano in mano che i contatti con Venezia divennero sempre più frequenti ed intimi, l'influenza del dialetto veneto si fece sentire anche nei comuni istriani, ove le famiglie dei cittadini andavano a gara di avvicinarsi anche nel linguaggio alla "Dominante". Fu così che, ove maggiori furono i contatti fra le due rive dell'Adriatico o maggiore la possibilità di subirne l'influenza maggiore fu l'innesto del "veneziano" nel primitivo volgare istriano; e dalla loro reciproca fusione ed assimilazione ebbero vita varie parlate cui si scinde la nostra regione:
il ladino ritrattosi adesso al Friuli ma dominante una volta a Trieste ed a Muggia;
l'istriano che si parla a Rovigno, Dignano, Gallesano, Fasana e Valle;
i1 veneto in tutte le altre località dell'Istria". (Nota 1).
Bisogna tenere presente che, essendo stata l'Istria spopolata e ripopolata, il fenomeno del cambio linguistico è molto complesso.
Le cause principali dello spopolamento del territorio istriano sono dovute alle epidemie di peste e di malaria che decimarono la popolazione dal XIII al XVII secolo. Si ebbero in totale 41 epidemie pestilenziali; la chiamavano il "mal de la Giandussa". Incessantemente l'Istria era colpita pure da febbri malariche. La mancanza di popolazione si fece sentire anche a causa delle lunghe, ripetute ed ostinate guerre che Venezia conduceva contro i patriarchi di Aquileia, Genova, gli Ungheri, l'Austria, i Turchi, la contea di Pisino, i conti di Gorizia, gli Uscocchi. Le uccisioni di uomini erano accompagnate dalle devastazioni dei campi c dal saccheggiamento di animali. Nelle Commissioni ducali del 1375 sì legge: "L'Istria tutta può dirsi deserta". L' ultima grande epidemia infierì dal 1629 al 1631. Pola non era più una città, ma "il cadavere di una città".
Lo stato diresse l'immigrazione e la colonizzazione a partire dal 1500. Si tentò di ripopolare l'Istria con Italiani, Greci, Morlacchi, Albanesi, Montenegrini, Sloveni e Croati. Ci furono 102 momenti di colonizzazione registrati dal XV al XVII secolo.
Il ripopolamento ebbe riflessi linguistici importantissimi. Lo Czöernig studiò gli Slavi nel 1851 per incarico dell'Austria e li distinse in 17 gruppi linguistici. I nuovi coloni slavi vennero in contatto con gli abitanti delle città e la popolazione della campagna istriana divenne bilingue. "Nel meridione della penisola, dove l'elemento romanzo italiano prima del XVI secolo era predominante la colonizzazione significò l'avvio di quel processo che doveva portare alla formazione di due sfere culturali diverse e all'instaurazione tra loro di un "equilibrio" sui generis. Quando si parla di "equilibrio" tra la sfera culturale italiana e quella croata nell'Istria meridionale non s'intende sottolineare la presenza di una "validità" e di un "ruolo" uguali in ambito locale e in quello di più vasto respiro, ma innanzi tutto, il fatto dell'avvenuta impostazione di un equilibrio in senso di "acculturazione", per cui la più forte cultura italiana non riuscì ad assimilare quella più debole croata. II processo di "acculturazione" in Istria non si è concluso; i contatti e i rapporti tra "culture" etnicamente divergenti si sono mantenuti nei limiti di un "equiibrio" sui generis" (Nota 2).
L'appartenenza linguistìca dell'Istria nel secolo XVIII era costituita da tre comunità linguistiche: croata, italiana e slovena. Il processo di venetizzazione linguistica dell'Istria possiamo seguirlo nel tempo grosso modo in 3 fasi distinte.
La "prima fase" comprende alcuni secoli - dal X al XIII - nei quali Venezia in rapporti amichevoli o sconfitte con le città costiere istriane le lega a sé nel "vincolo di fedeltà". L'Istria costiera divenne politicamente veneziana e il veneziano lingua amministrativa. Ci fu una prima fase di coesistenza di due codici: quello veneziano e quello dei dialetti istriani preveneti. Sembra logico che il veneziano dal XIV al XV secolo era limitato a precise situazioni e funzioni.
La "seconda fase" di venetizzazione va dal XVI secolo alla prima metà del XIX secolo. E' in questo periodo, nel '500, che il toscano si impose come lingua nazionale sostituendo gradualmente i1 veneziano. Il veneziano divenne strumento di comunicazione elevata. Si fissò come koiné provinciale.
La "terza fase" vede l'indebolimento e la sconfitta politica ed economica della Serenissima. Il triestino, dialetto venezianeggiante, sostituì il tergestino, dialetto friuleggiante, nel XIX secolo. Nell'Istria si diffuse il modello linguistico triestino senza grosse difficoltà; quando Trieste diventa Porto Franco sostituì economicamente Venezia. "Ne1'800 il triestino divenne la guida della koinè veneta giuliana" (Nota 3). La terza venetizzazione è dunque segnata dall'interferenza del triestino sui dialetti veneti dell'Istria.
Nei primi dell'Ottocento alcune idee filosofiche innescarono una quantità di avvenimenti. Furono il Romanticismo e l'Idealismo filosofico tedesco a contrapporsi alla cultura classica greca e romana ripescando il proprio medioevo. L'Idealismo porta a pensare allo "spirito delle nazioni" (Hegel). Da questa idea scoppiano in Europa da una parte istanze demografiche, costituzionalistiche e dall'altra, l'Europa è percorsa da una tensione definita irredentistica. L'Austria doveva confrontarsi con l'irredentismo polacco, ungherese, italiano, croato. Le consapevolezze linguistiche cominciarono a fiorire da più parti. Si crearono situazioni di dinamismo conflittuale positivo. L'apporto del nuovo dinamismo del triestino si accompagnò all'espansione economica, che riaprì le grosse vie di comuncazione dell'Istria servendosi di un grosso volume di comunicazione dialettale. Nell'Istria occidentale ci fu la ricostituzione di una buona parte del continuum linguistico romanzo. Il dialetto veneziano-triestino riacquistò rapidamente tutto il suo prestigio. Gli italofoni acquistarono progressivamente terreno. I fenomeni di acculturazione e di bilinguismo non hanno implicato sempre il cambio linguistico. È proprio questa fluidità del confine etnicolinguistico che caratterizza la terza fase di venetizzazione dell'Istria.
Nel secolo XX l'Istria conobbe la stagione dei totalitarismi. L'Italia iniziò a condurre una politica di assimilazione dei croati e degli sloveni subito dopo il 1918. Si chiusero le scuole con lingua d'insegnamento croata e slovena. Dopo l'ascesa al potere del fascismo si vietò l'uso dello sloveno e del croato nell'amministrazione e nei tribunali. Si interruppe ogni attività sportiva e culturale in sloveno e croato. Vennero italianizzati quasi tutti i cognomi slavi. Tale politica già nel 1921 provocò la resistenza degli sloveni e croati. La seconda guerra mondiale e la divisione politica del territorio istriano ebbe come conseguenza l' esodo di buona parte della sua popolazione. La nuova congiuntura nazionale jugoslava esercitava una forte pressione ideologica sulla. popolazione, schierando le minoranze nazionali da una o dall'altra parte. Si arrivò cosi all'esodo massiccio degli italofoni. Oltre al continuum storico del dialetto istroveneto, qui tracciato, c'è l'ipotesi dell'autoctonia dei sistemi dialettali veneti in Istria, sostenuta dal Decarli. Questa tesi è respinta dal Crevatin, il quale sostiene che non sia scientifica. "Basti riflettere su questo banale elemento: "veneto" non equivale a "veneziano", nonostante l'uso promiscuo che si fa di queste designazioni, ed i dialetti istriani (non parlo di quelli istrioti, ovvìamente) sono di tipo scientificamente veneziano, guarda caso il dialetto di chi ha retto l' Istria tra il XIV e il XVIII secolo (Nota 4).
Note:
B. BENUSSI, L'Istria nei suoi due mìllenni di storia, Trieste, 1924,p.283.
M.BERTOSA, L'equilibrio nel processo di "acculturazìone" ìn Istria: tra interazioni e opposizioni, 1982/1983, p.282.
F. CREVATIN, "Per una storia della venetizzazione dell'Istria", Studi mediolatini e volgari, 1975, p.98.
IDEM, "Pagine di storia linguistica istriana", AMSI, vol. XXIV (1976), p. 317.
Bibliografia:
B. BENUSSI, L'Istria nei suoi due rnillenni di storia, Trieste, 1924.
M. BERTOSA, "L'equilibrio nel processo di "acculturazione" in Istria: tra interazìoni ed opposizioni',ACRS.voI.XIII (1982/83), pp. 273 -92.
G. BRANCALE-L.DECARLl, Istria, dialetti eprelstorta,Triestc, 1997.
M.R. CRRASUOLOPERTUSI "Il contributo dell'etimologia alla storia della neolatinità istriana",AMSI, voLXXXVIII (n.s.) (I99U), pp.187-251.
F. CREVATIN, "Per una storia della venetizzaziunc linguistica dell' lstria. Prospettive metodologiche per una sociolinguistica diacronica", Studi mediolatini e volgari, voLXXlll (1975), pp.59-99.
IDEM,"Pagine di storia linguistica istriana". AMSI, vol. XXIV (n. s.) (1976), pp. 39-50.
IDEM, "I dialetti veneti dell'Istria", Guida ai dialetti veneti, vol.IV (1982), pp.39-50.
D. DAROVEC, Rassegna di storia istriana. Biblioteca Annales, Koper/Capodistria, 1993.
L. DECARLI, Origine del dialetto veneto istriano, Trieste 1976.
IDEM, --Il veneto istriano, Guida ai dialetti veneti, vnLVll (1985), pp.91-125.
Fonte:
Marija Nedveš, "Il dialetto istroveneto", La Ricerca n. 31-32 settembre-dicembre 2001.
giovedì 22 gennaio 2009
Biagio Marin. La vita, la poesia
Biagio Marin nasce il 29 giugno 1891 a Grado. Figlio di un oste, rimane orfano di madre nei primi anni di vita e viene allevato dalla nonna paterna. Inizia gli studi a nove anni, a Gorizia, dove frequenta il corso preparatorio, quindi il ginnasio di lingua tedesca, lingua che studia di più dell’italiano, perchè così vuole il piano di studi dell’Impero asburgico. Frequenta poi le Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria).
Nel 1911 va a Firenze dove frequenta l’ambiente letterario della "Voce" di Prezzolini: qui incontra scrittori giuliani come lui (Slataper, Giani e Carlo Stuparich, Saba, Giotti), ma anche Jahier, Salvemini, Amendola; approfondisce inoltre la conoscenza della cultura rinascimentale che un grande fascino aveva avuto in lui dai primi studi artistici.
Nel 1912 va a Vienna dove frequenta per due anni la facoltà di filosofia, conosce la musica di Beethoven e Bach, legge autori russi e scandinavi e incontra diverse persone fra cui il pedagogista austriaco Forster, che non poca influenza avrà nelle sue successive scelte di studi e lavoro.
Nel ’14 torna a Firenze dove si fidanza con Pina Marini, che sposerà l’anno successivo e dalla quale avrà quattro figli. Dopo i fatti di Serajevo, è costretto ad assolvere i suoi obblighi militari come suddito asburgico, ma riesce a disertare in Italia, dove vuole arruolarsi come volontario. Ci riuscirà solo dopo Caporetto a causa della tubercolosi che nel frattempo lo aveva colpito.
Finita la Prima Guerra Mondiale si laurea a Roma in filosofia, quindi insegna per due anni filosofia e pedagogia all'istituto magistrale di Gorizia. Lascia però l’insegnamento per contrasti col clero locale: aveva proposto il Vangelo quale testo pedagogico. Fa poi l’ispettore scolastico del mandamento di Gradisca, fino al 1923, anno in cui passa a dirigere (per 14 anni) l’azienda balneare e di cura di Grado; dal 1938 al 1941 torna ad insegnare (letteratura, filosofia e storia a Trieste), quindi (fino al 1956) fa il bibliotecario presso la sede triestina delle Assicurazioni Generali. Profondamente segnato dalla morte del figlio Falco (25 luglio 1943), in Slovenia, nel 1945 entra nel CNL di Trieste, diventandone presidente il 27 aprile. Dal 1968 torna a Grado dove resterà fino alla morte avvenuta nell’85. Fra le raccolte di versi, pubblicate a partire al 1912 con "Fiuri de tapo", segnaliamo: "Le litànie de la Madona" (1949), "Solitàe" (1961), "Elegie istriane" (1963), "In non tempo del mare" (1965), "El mar de l’eterno" (1967), "I canti de l’isola" (1970 - raccoglie tutte le poesie pubblicate fino al 1969), "La vita xe fiama" (1972), "A sol calao" (1974), "El critoleo del corpo fracassao" (1976, dedicata a Pasolini), "In memoria" (1978), "Nel silenzio più teso" (1980), "Poesie" (1981), "La vose de la sera" (1985).
Biagio Marin ha scritto anche versi in italiano (segnaliamo: "Acquamarina" del 1973) e prose; diversi i contributi critici, fra cui quelli di Guagnini, Bo, Pasolini, Serra, Marabini e Magris. Nel centenario della nascita del grande poeta, il critico e scrittore Claudio Marabini ne tracciava un conciso, quanto chiaro e preciso profilo legato al mare. Il 29 giugno (giorno della nascita di Marin), intervenendo al terzo "Faenza Folk Festival" nel 1991, una fra le più importanti manifestazioni poetico-musicali italiane, intitolata - guarda caso - Frontiere di terra e di mare, Marabini così affermava di Marin: "Nel suo dialetto veneto gradese - pieno di luce, cielo, mare - il mare è un mare senza nome, senza confini, disfatto in pura luce. In esso, lui, il poeta, si dissolve come poeta, cantando i luoghi della sua vita, della sua terra. In tutta la poesia dialettale ed italiana, nessun altro ha toccato il mare come Biagio Marin".
É proprio da questo fatto, dal mare, dal rapporto originario e originale con esso che vogliamo parlare di Biagio Marin, poeta di frontiera, e della sua poesia, poesia di mare, ma soprattutto le acque della costa adriatica nord-orientale (dalle valli di Comacchio - tra storia, fiaba e ricordo - alla laguna veneziana nella festa del Redentore, fino, appunto, al mare della Venezia Giulia di Marin). Nella formazione umana e poetica di Biagio Marin, la terra d’origine, il paesaggio che gli ha dato i natali, che ha accolto in particolare la sua infanzia e, poi, dal ‘68 gli ultimi diciotto anni della sua vita, è risultata determinante. Grado, alla fine del secolo scorso era una piccola e isolata isola (non è un gioco di parole) della laguna compresa tra le foci dell’Isonzo e del Tagliamento.
Solo più tardi sarebbe uscita dal suo secolare isolamento diventando una meta turistica prima asburgica, poi veneta e mitteleuropea, quindi un centro commerciale e di pesca collegato alla terraferma e alla vicina Istria. Il mare lagunare di Grado, aperto, sempre in moto ad oriente e a ponente, col santuario di Barbana poco distante; apparentemente immobile a settentrione, con distese di luce a perdersi su acque continuamente mutevoli nei colori e con la pianura friulana estesa oltre Aquileia in lontananza, costituisce il luogo essenziale della poesia di Marin. Il mare è lo spazio infinito da cui il poeta trae ispirazione e nel quale vagare, cercare, scoprire il Tutto, l’unitario Tutto, riconosciuto senso della sua vita e di ogni vita, umana e non. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, Marin affermò, tra l’altro, che "il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. É come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di "soio" e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo. Del resto i miei genitori erano tutti marinai e noi uscivamo padroni di un trabaccolo col quale io, insieme a mio padre, ho navigato molte volte le coste dell’Istria. Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio". Il mare per Marin non si può staccare dalla vita, dalle sue cose, dalle circostanze, dalla realtà, dal vero grande ispiratore della sua poesia: "Dio, el so poeta" (Dio, il suo poeta); Marin riconosce e scopre che la vita è unitaria. Nel bene e nel male "vedeva e sentiva dovunque - come ha richiamato lo scrittore e saggista Claudio Magris -, anche nel dolore e nella morte, la sua unità, la possedeva con inebriata e inquietante sensualità che trovava desiderabile, anche il morire; non solo i gabbiani in volo nel cielo estivo ma anche i gabbiani morti sulla sabbia e avviati a dissolversi, che prendeva in mano quasi con desiderio".
Dentro l’unitarietà della vita c’è la poesia, vista non come qualcosa di separato, di intellettualistico, ma come qualcosa che si "trova dentro". Addirittura, Marin si arrabbiava o si scherniva se qualcuno gli diceva che era lui a scrivere poesie. La poesia "non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perchè mi secca svegliarmi, ma altrevolte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me". Il mare è stato per Marin anche il luogo della pace, della ritrovata serenità, forse per quella prima scoperta, forse per l’intuizione della vita come totalità, soprattutto dopo i grandi momenti di sofferenza passati: dalla morte del figlio Falco (nel ’43, in guerra) al suicidio del nipote Guido nel ’77, dalla scomparsa della moglie Pina nel ’78 alla cecità e quasi sordità sopravvenute negli Anni Settanta. La poesia diventa cioè il luogo del vivere, la sola presenza che valga "Parola, mio solo rifugio", si intitola significativamente una sua raccolta scritta gli inizi degli Anni Ottanta -, nonostante "tutto quello che può cadere addosso a un uomo ingenuo e imprevidente, nessuna amarezza esclusa", come scrisse genialmente Pier Paolo Pasolini. Il poeta resta lì, immerso, "a fare tutt’uno col mare, col cielo, coi gabbiani, coi bambini, con le sabbie, con le paludi, col sole, nel fuoco del sesso che copre il mondo con la sua lava celeste. Pur imparando tutto, il nostro poeta non ha imparato nulla. Ogni volta è come la prima volta" (ancora Pasolini). Non ha paura né dell’amore, né della morte, anzi riesce a parlare di queste senza la mediazione di una lingua che non sente sua (l’Italiano), ma con quella del cuore, quello della terra madre, il veneto gradese, un dialetto suo, che arricchisce di neologismi e con cui esprime la sua "tensione generatrice":
Quanto più moro
presensa
al mondo intermitente
e luse che se spenze, de ponente
tanto più de la vita m’inamoro.
E del sol rîe che fa fiurî l’avril
e del miel che l’ha in boca,
la prima neve che za fioca
sia pur lenta e zentil.
Melodioso l’andâ per strà
de l’anca mola nel menèo
che ondesa comò fa ‘l canèo
nel maistral disteso de l’istà.
Musica in ela
e in duta la persona
che duta quanta sona
de quela zoigia che m’insiela.
Quela musica duta la me intona
la fa de me corente d’aqua viva
che in mar se perde senza riva
e solo el perdimento la ragiona.
(Quanto più muoio / nel mondo / presenza intermittente / e luce che si spegne, da ponente / tanto più nella vita m’innamoro. / E del suo ridere che fa fiorire l’aprile / e del miele che ha in bocca, / la prima neve già fiocca / sia pure lenta e gentile. / melodioso l’andare per istrada / nell’ondulare dell’anca molle / che ondeggia come fa il canneto / nel maestrale disteso dell’estate. / Musica in lei/ e in tutta la persona / che tutta quanta suona / di quella gioia che mi inciela. / Quella musica tutta mi intona / fa di me corrente d’acqua viva / che si perde in mare senza rive / e solo il perdimento suo ragiona ).
All’uomo di oggi, sempre più diviso, indifferente, angosciato, incapace di ascoltare, Marin indica una possibile strada, che nasce "co gera bianco ‘I mar e urleva el vento" (dove era bianco il mare e urlava il vento"), e dove "i pescaùri ha fatto un girlanda dei cuori sovi" (i pescatori hanno fatto una ghirlanda dei loro cuori), perchè ciascuno possa scoprire il senso della vita. Non appartiene solo a Grado il profeta della natura.
Elio Cipriani (Dal sito del "Centro Studi Biagio Marin" di Grado diretto da Edda Serra)
E 'NDEVENO CUSSÌ LE VELE AL VENTO...
E 'ndéveno cussì le vele al vento
lassando drìo de noltri una gran ssia,
co' l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento
sensa pinsieri de manincunia.
Mámole e mas-ci missi zo a pagiol
co' Leto capitano a la rigola;
e 'ndéveno cantando soto 'l sol
canson, che incòra sora 'l mar le sbola.
E l'aqua bronboleva drío 'l timon
e del piasser la deventava bianca
e fin la pena la mandeva un son
fin che la bava no' la gera stanca.
E andavamo così, le vele al vento / lasciando dietro di noi una gran scia, / con l’anima negli occhi e il cuor contento / senza pensieri di malinconia. // Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo / con alla barra Leto capitano; / andavamo cantando sotto il sole canzoni / che ancora volano sul mare. // L’acqua ribolliva dietro il timone / e dal piacere diventava bianca, / persino la penna suonava: / fin che la bava non era stanca.
PAESE MIO
Paese mio,
picolo nío
e covo de corcali,
pusào lisiero sora un dosso biondo,
per tu de canti ne faravo un mondo
e mai no finiravo de cantâli.
Per tu 'sti canti a siò che i te 'ncorona
comò un svolo de nuòli matutini
e un solo su la fossa de gno nona
duta coverta d'alti rosmarini.
(da “Cansone picole”, 1927)
PAESE MIO
Paese mio,
/ piccolo nido
/e covo di gabbiani,
/ posato leggero su di un dosso biondo, /
per te di canti ne farei un mondo / e mai non smetterei di cantarli.
// Per te questi canti, perché ti incoronino / come un volo di nuvoli mattutini / e uno solo sulla fossa della nonna mia / tutta coperta di alti rosmarini.
UNA CANSON DE FÉMENA
Una canson de fémena se stende
comò caressa colda sul paese;
el gran silensio fa le maravegie
per quela vose drío de bianche tende.
El vespro setenbrin el gera casto:
fra le case incantàe da la so luse
se sentiva 'na machina de cûse
sbusinâ a mosca drento el sielo vasto.
Inprovisa quel'onda l'ha somerso
duto 'l paese ne la nostalgia:
la vose colda i cuori porta via
nel sielo setenbrin, cristalo terso.
(da “Minudagia”, 1951)
UNA CANZONE DI DONNA
Una canzone di donna si stende / come carezza calda sul paese; / il gran silenzio fa le meraviglie / per quella voce dietro bianche tende. // Il vespro settembrino era casto: / fra le case incantate della sua luce / si sentiva una macchina da cucire / ronzare a mosca entro il cielo vasto. // Improvvisa quell’onda ha sommerso / tutto il paese nella nostalgia: / la voce calda i cuori porta via / nel cielo settembrino, cristallo terso.
Finita la Prima Guerra Mondiale si laurea a Roma in filosofia, quindi insegna per due anni filosofia e pedagogia all'istituto magistrale di Gorizia. Lascia però l’insegnamento per contrasti col clero locale: aveva proposto il Vangelo quale testo pedagogico. Fa poi l’ispettore scolastico del mandamento di Gradisca, fino al 1923, anno in cui passa a dirigere (per 14 anni) l’azienda balneare e di cura di Grado; dal 1938 al 1941 torna ad insegnare (letteratura, filosofia e storia a Trieste), quindi (fino al 1956) fa il bibliotecario presso la sede triestina delle Assicurazioni Generali. Profondamente segnato dalla morte del figlio Falco (25 luglio 1943), in Slovenia, nel 1945 entra nel CNL di Trieste, diventandone presidente il 27 aprile. Dal 1968 torna a Grado dove resterà fino alla morte avvenuta nell’85. Fra le raccolte di versi, pubblicate a partire al 1912 con "Fiuri de tapo", segnaliamo: "Le litànie de la Madona" (1949), "Solitàe" (1961), "Elegie istriane" (1963), "In non tempo del mare" (1965), "El mar de l’eterno" (1967), "I canti de l’isola" (1970 - raccoglie tutte le poesie pubblicate fino al 1969), "La vita xe fiama" (1972), "A sol calao" (1974), "El critoleo del corpo fracassao" (1976, dedicata a Pasolini), "In memoria" (1978), "Nel silenzio più teso" (1980), "Poesie" (1981), "La vose de la sera" (1985).
Biagio Marin ha scritto anche versi in italiano (segnaliamo: "Acquamarina" del 1973) e prose; diversi i contributi critici, fra cui quelli di Guagnini, Bo, Pasolini, Serra, Marabini e Magris. Nel centenario della nascita del grande poeta, il critico e scrittore Claudio Marabini ne tracciava un conciso, quanto chiaro e preciso profilo legato al mare. Il 29 giugno (giorno della nascita di Marin), intervenendo al terzo "Faenza Folk Festival" nel 1991, una fra le più importanti manifestazioni poetico-musicali italiane, intitolata - guarda caso - Frontiere di terra e di mare, Marabini così affermava di Marin: "Nel suo dialetto veneto gradese - pieno di luce, cielo, mare - il mare è un mare senza nome, senza confini, disfatto in pura luce. In esso, lui, il poeta, si dissolve come poeta, cantando i luoghi della sua vita, della sua terra. In tutta la poesia dialettale ed italiana, nessun altro ha toccato il mare come Biagio Marin".
É proprio da questo fatto, dal mare, dal rapporto originario e originale con esso che vogliamo parlare di Biagio Marin, poeta di frontiera, e della sua poesia, poesia di mare, ma soprattutto le acque della costa adriatica nord-orientale (dalle valli di Comacchio - tra storia, fiaba e ricordo - alla laguna veneziana nella festa del Redentore, fino, appunto, al mare della Venezia Giulia di Marin). Nella formazione umana e poetica di Biagio Marin, la terra d’origine, il paesaggio che gli ha dato i natali, che ha accolto in particolare la sua infanzia e, poi, dal ‘68 gli ultimi diciotto anni della sua vita, è risultata determinante. Grado, alla fine del secolo scorso era una piccola e isolata isola (non è un gioco di parole) della laguna compresa tra le foci dell’Isonzo e del Tagliamento.
Solo più tardi sarebbe uscita dal suo secolare isolamento diventando una meta turistica prima asburgica, poi veneta e mitteleuropea, quindi un centro commerciale e di pesca collegato alla terraferma e alla vicina Istria. Il mare lagunare di Grado, aperto, sempre in moto ad oriente e a ponente, col santuario di Barbana poco distante; apparentemente immobile a settentrione, con distese di luce a perdersi su acque continuamente mutevoli nei colori e con la pianura friulana estesa oltre Aquileia in lontananza, costituisce il luogo essenziale della poesia di Marin. Il mare è lo spazio infinito da cui il poeta trae ispirazione e nel quale vagare, cercare, scoprire il Tutto, l’unitario Tutto, riconosciuto senso della sua vita e di ogni vita, umana e non. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, Marin affermò, tra l’altro, che "il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. É come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di "soio" e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo. Del resto i miei genitori erano tutti marinai e noi uscivamo padroni di un trabaccolo col quale io, insieme a mio padre, ho navigato molte volte le coste dell’Istria. Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio". Il mare per Marin non si può staccare dalla vita, dalle sue cose, dalle circostanze, dalla realtà, dal vero grande ispiratore della sua poesia: "Dio, el so poeta" (Dio, il suo poeta); Marin riconosce e scopre che la vita è unitaria. Nel bene e nel male "vedeva e sentiva dovunque - come ha richiamato lo scrittore e saggista Claudio Magris -, anche nel dolore e nella morte, la sua unità, la possedeva con inebriata e inquietante sensualità che trovava desiderabile, anche il morire; non solo i gabbiani in volo nel cielo estivo ma anche i gabbiani morti sulla sabbia e avviati a dissolversi, che prendeva in mano quasi con desiderio".
Dentro l’unitarietà della vita c’è la poesia, vista non come qualcosa di separato, di intellettualistico, ma come qualcosa che si "trova dentro". Addirittura, Marin si arrabbiava o si scherniva se qualcuno gli diceva che era lui a scrivere poesie. La poesia "non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perchè mi secca svegliarmi, ma altrevolte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me". Il mare è stato per Marin anche il luogo della pace, della ritrovata serenità, forse per quella prima scoperta, forse per l’intuizione della vita come totalità, soprattutto dopo i grandi momenti di sofferenza passati: dalla morte del figlio Falco (nel ’43, in guerra) al suicidio del nipote Guido nel ’77, dalla scomparsa della moglie Pina nel ’78 alla cecità e quasi sordità sopravvenute negli Anni Settanta. La poesia diventa cioè il luogo del vivere, la sola presenza che valga "Parola, mio solo rifugio", si intitola significativamente una sua raccolta scritta gli inizi degli Anni Ottanta -, nonostante "tutto quello che può cadere addosso a un uomo ingenuo e imprevidente, nessuna amarezza esclusa", come scrisse genialmente Pier Paolo Pasolini. Il poeta resta lì, immerso, "a fare tutt’uno col mare, col cielo, coi gabbiani, coi bambini, con le sabbie, con le paludi, col sole, nel fuoco del sesso che copre il mondo con la sua lava celeste. Pur imparando tutto, il nostro poeta non ha imparato nulla. Ogni volta è come la prima volta" (ancora Pasolini). Non ha paura né dell’amore, né della morte, anzi riesce a parlare di queste senza la mediazione di una lingua che non sente sua (l’Italiano), ma con quella del cuore, quello della terra madre, il veneto gradese, un dialetto suo, che arricchisce di neologismi e con cui esprime la sua "tensione generatrice":
Quanto più moro
presensa
al mondo intermitente
e luse che se spenze, de ponente
tanto più de la vita m’inamoro.
E del sol rîe che fa fiurî l’avril
e del miel che l’ha in boca,
la prima neve che za fioca
sia pur lenta e zentil.
Melodioso l’andâ per strà
de l’anca mola nel menèo
che ondesa comò fa ‘l canèo
nel maistral disteso de l’istà.
Musica in ela
e in duta la persona
che duta quanta sona
de quela zoigia che m’insiela.
Quela musica duta la me intona
la fa de me corente d’aqua viva
che in mar se perde senza riva
e solo el perdimento la ragiona.
(Quanto più muoio / nel mondo / presenza intermittente / e luce che si spegne, da ponente / tanto più nella vita m’innamoro. / E del suo ridere che fa fiorire l’aprile / e del miele che ha in bocca, / la prima neve già fiocca / sia pure lenta e gentile. / melodioso l’andare per istrada / nell’ondulare dell’anca molle / che ondeggia come fa il canneto / nel maestrale disteso dell’estate. / Musica in lei/ e in tutta la persona / che tutta quanta suona / di quella gioia che mi inciela. / Quella musica tutta mi intona / fa di me corrente d’acqua viva / che si perde in mare senza rive / e solo il perdimento suo ragiona ).
All’uomo di oggi, sempre più diviso, indifferente, angosciato, incapace di ascoltare, Marin indica una possibile strada, che nasce "co gera bianco ‘I mar e urleva el vento" (dove era bianco il mare e urlava il vento"), e dove "i pescaùri ha fatto un girlanda dei cuori sovi" (i pescatori hanno fatto una ghirlanda dei loro cuori), perchè ciascuno possa scoprire il senso della vita. Non appartiene solo a Grado il profeta della natura.
Elio Cipriani (Dal sito del "Centro Studi Biagio Marin" di Grado diretto da Edda Serra)
E 'NDEVENO CUSSÌ LE VELE AL VENTO...
E 'ndéveno cussì le vele al vento
lassando drìo de noltri una gran ssia,
co' l'ánema in t'i vogi e 'l cuor contento
sensa pinsieri de manincunia.
Mámole e mas-ci missi zo a pagiol
co' Leto capitano a la rigola;
e 'ndéveno cantando soto 'l sol
canson, che incòra sora 'l mar le sbola.
E l'aqua bronboleva drío 'l timon
e del piasser la deventava bianca
e fin la pena la mandeva un son
fin che la bava no' la gera stanca.
E andavamo così, le vele al vento / lasciando dietro di noi una gran scia, / con l’anima negli occhi e il cuor contento / senza pensieri di malinconia. // Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo / con alla barra Leto capitano; / andavamo cantando sotto il sole canzoni / che ancora volano sul mare. // L’acqua ribolliva dietro il timone / e dal piacere diventava bianca, / persino la penna suonava: / fin che la bava non era stanca.
PAESE MIO
Paese mio,
picolo nío
e covo de corcali,
pusào lisiero sora un dosso biondo,
per tu de canti ne faravo un mondo
e mai no finiravo de cantâli.
Per tu 'sti canti a siò che i te 'ncorona
comò un svolo de nuòli matutini
e un solo su la fossa de gno nona
duta coverta d'alti rosmarini.
(da “Cansone picole”, 1927)
PAESE MIO
Paese mio,
/ piccolo nido
/e covo di gabbiani,
/ posato leggero su di un dosso biondo, /
per te di canti ne farei un mondo / e mai non smetterei di cantarli.
// Per te questi canti, perché ti incoronino / come un volo di nuvoli mattutini / e uno solo sulla fossa della nonna mia / tutta coperta di alti rosmarini.
UNA CANSON DE FÉMENA
Una canson de fémena se stende
comò caressa colda sul paese;
el gran silensio fa le maravegie
per quela vose drío de bianche tende.
El vespro setenbrin el gera casto:
fra le case incantàe da la so luse
se sentiva 'na machina de cûse
sbusinâ a mosca drento el sielo vasto.
Inprovisa quel'onda l'ha somerso
duto 'l paese ne la nostalgia:
la vose colda i cuori porta via
nel sielo setenbrin, cristalo terso.
(da “Minudagia”, 1951)
UNA CANZONE DI DONNA
Una canzone di donna si stende / come carezza calda sul paese; / il gran silenzio fa le meraviglie / per quella voce dietro bianche tende. // Il vespro settembrino era casto: / fra le case incantate della sua luce / si sentiva una macchina da cucire / ronzare a mosca entro il cielo vasto. // Improvvisa quell’onda ha sommerso / tutto il paese nella nostalgia: / la voce calda i cuori porta via / nel cielo settembrino, cristallo terso.
virgilio Giotti, quando il triestino diventa lingua di poesia
Virgilio Giotti nasce a Trieste il 15 gennaio del 1885 da Riccardo Schönbeck e da Emilia Gheotto, da cui il nome d'arte. Portato al disegno frequenterà la Scuola Industriale, dalla quale uscirono varie generazioni di pittori e scultori triestini. Nel 1907, per evitare il servizio militare sotto l'Austria, fugge a Firenze dove conosce Scipio Slataper, i fratelli Stuparich, Alberto Spaini e Biagio Marin. A San Felice in Val d'Ema, non lontano da Firenze, nel 1911 incontra Nina Schekotoff, originaria di Mosca e ne fa la compagna della sua vita. In Toscana nascono i suoi tre figli: Tanda nel 1913, Paolo nel '15 e Franco nel '19. Per vivere viaggia in Valtellina, in Carnia, in Svizzera a vendere giocattoli e oggetti artigianali toscani. Inizia a scrivere in dialetto triestino nel 1909. A Firenze l'editore Gonnelli gli pubblica nel 1914 il Piccolo canzoniere in dialetto triestino la raccolta delle poesie composte tra il 1909 e il 1912. Torna a Trieste nel 1919 e va ad abitare in periferia, a Montebello, in via La Marmora 34 (vi rimarrà fino alla fine dei suoi giorni). In quegli anni apre una botteguccia di giornali in Cittavecchia che durerà un anno. Gli amici gli trovano un impiego alla Lega Nazionale. Incontra quotidianamente Saba, Stuparich, il pittore Bolaffio e il giovanissimo Roberto Bazlen. Nel 1920 la Libreria Antica e Moderna di Saba pubblica le sue poesie e prose in lingua, scritte tra il 1916 e il 1919, con il titolo Il mio cuore e la mia casa. Nel 1928 per le edizioni di Solaria escono Caprizzi, canzonete e storie. Nel 1930 Giotti è assunto nell'amministrazione dell'Ospedale Maggiore come avventizio e tale resterà fino al pensionamento nel 1957. Nel 1931, presso l'editore fiorentino Parenti, esce la sua quarta opera, Liriche e idilli, che raccoglie le nuove poesie in lingua scritte tra il 1920 e il 1924, nonché il gruppo di poesie dell'edizione triestina Il mio cuore e la mia casa. Escono altre liriche su varie riviste nazionali: "Circoli", "Lirica", "Solaria", "Ateneo Veneto" e nel 1941, presso l'editore Parenti, escono le poesie composte tra il 1928 e il 1936, con il titolo Colori. Nel 1943, per le edizioni Le tre Venezie, esce l'opera completa delle poesie in dialetto, composte dal 1909 al 1943, per la quale raccolta egli mantiene il titolo Colori. Al centro della sua opera si situa il dramma della scomparsa in Russia dei due figli, Paolo e Franco, nel corso dell'ultima guerra. La vicenda era resa ancora più tragica dal fatto che la loro madre era russa. Nei mesi che precedettero la fine, intercorse un fitto scambio epistolare con il padre (pubblicato poi nel 2005 con il titolo Lettere al padre, dialogo tra Virgilio Giotti e i figli durante la campagna di Russia per Il Ramo d'Oro Editore), che resta un altissimo documento umano e civile, non privo peraltro di un notevolissimo interesse letterario, come sottolinea, nell'introduzione al volume che raccoglie le loro lettere, Cesare Segre. Le poesie del padre ci offrono un prezioso riscontro sulla sua opera in versi, anticipando quegli Appunti inutili (il diario uscirà postumo nel 1959 per Lo Zibaldone di Anita Pittoni), nati nel dopoguerra, che Pasolini definirà un capolavoro del Novecento e Giani Stuparich, nel breve testo introduttivo a quelle pagine scriverà: "Confesso d'aver letto la prima volta queste pagine di diario con la gola serrata e con un forte stringimento di cuore..." Nel 1946 due amici triestini Emilio Dolfi e Manlio Malabotta pubblicano in poco più di 100 esemplari Sera, che raccoglie le poesie scritte tra il 1943 e il 1946; l'opera verrà ristampata nel 1948 dall'editore torinese De Silva. Nel 1949, in soli 25 esemplari fuori commercio, escono le Poesie per Carlota, composte tra il 30 giugno e il 4 luglio del 1949. L'ultima raccolta di liriche, Versi, sarà pubblicata da Lo Zibaldone nel 1953. Nel giugno del 1957 l'Accademia dei Lincei gli conferisce il premio "Feltrinelli" per la poesia. La raccolta di tutte le sue poesie (tranne le Poesie per Carlota), Colori, pubblicata dall'editore Ricciardi e di cui il poeta farà appena in tempo a correggere le bozze, uscirà postuma.
Virgilio Giotti muore a Trieste il 21 settembre 1957.
Da Versi (Trieste, 1953) Vècia mòglie
La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui ‘desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente ‘
’sto respiro de lui, sintir nel scuro
che’el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar ‘n un grando scuro.
‘Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no’ la ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
no del morir, quel che a tuti ghe ‘riva.
Virgilio Giotti muore a Trieste il 21 settembre 1957.
Da Versi (Trieste, 1953) Vècia mòglie
La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui ‘desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente ‘
’sto respiro de lui, sintir nel scuro
che’el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar ‘n un grando scuro.
‘Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no’ la ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
no del morir, quel che a tuti ghe ‘riva.
Velma: Un fim con Gianmarco Tognazzi in maranese
de Bruno Rossetto Doria
Velma
L’ano passò i gera vignùi a domandame se podevo traduse in maranese el mediometragio "Velma". El gera stò pensò e scrito dal regista Piero Tomaselli, un zovene de Servignan che ’l se ga formò a Roma, drento la Nuct de Cinecità.
Tomaselli el veva de svilupalo in forma senegiata e co i xe vignùi a sercame, sol el pensier de fa cognosse mèjo el nostro paese e la nostra parlada fora de Maran, ghe vevo dito indruman de sì.
Piero el veva insielto Maran, parché el se gera inamorò del nostro palùo, de le isole Sant’Andrea e Marineta, de l’oasi, de i casuni, par no parlà del paese e de la zente maranese. ’Mo tacò lavorà e semo ’ndài vanti un bel tòco posta giustà i discursi in maranese. Anca co i aturi Giorgio Monte, Emanuele Buttus, Gianmarco Tognazzi e quìi altri ciamài a fa qualchi tòco, ’mo lavorò par mete insieme le batùe, insielze quele che suneva mèjo in maranese.
Mancheva sol de tacà a girà el mediometragio. Gera de vènere, gerévomo drio tornà de la Marineta e in scafo se veva deciso de scuminsià luni, parché doménega sarissi rivada la cinepresa de Bologna. Piero ghe gera rivada na telefonada e el gera deventò de colpo bianco: la lo viseva che la Region e la banca i veva tajò el contributo e i veva dito che se ne riparleva forsi l’ano dopo. A bordo gera come che i ne vissi sparò, che i vissi copò qualchidun. Vévomo studiò i giughi par zurni, metùo posto el casòn, speso fadighe e movùo zente par gnente. Na telefonada la xe bastada par mandà a l’aria duto. Co Maran se ’mo lassài, avilìi, credévomo che romai "Velma" la sarissi stada na roba insumiada. Co in magio de sto ano Piero Tomaselli el me ga telefonò de tignì pronto el scafo, parché in setenbre vévomo de scuminsià girà el cine, no me pareva gnanca vero, saltevo de contentessa par elo e anca par quìi zùvini de la trup, che romài i gera deventài come de fameja.
"Velma" xe na storia ’sai triste tocada al Capitano (inpersonò da Giorgio Monte), un pescaòr maranese che, persa la fia e la mujer t’un bruto incidente el gera ’ndò fora de testa. Persi i semenài, veva tacò daghe fastidio duto e duti, e cussì el gera ’ndò vive sol a casòn. Là podeva ’ndà trovalo sol Manuel un zovene maranese un giosso stranbo, che ‘l ’ndèva cioghe el pesse e vèndeghelo par cronpaghe de magnà e le sigarete.
La storia la conta che el Capitano quela note no ’l gera stò bon de serà ocio colpa del mar grosso, del pensier che ’l veva calò la rete massa rente la spiaza. La matina dopo el sintiva ancora le onde che le sbateva e cussì, montò in batela, invissi de ’ndà fora in mar vogando, la veva ligada sul pontil a bonassa de la marineta. Capitano el gera ’ndò a pìe par vede ’ndove che gera ’ndada sbate la rete, ma somejèva come che ’l savissi là che la gera, dato che ’pena fora i sterpi el gera ’ndò sbate col naso parsora el maso de lore. Strassinàe in spiaza con le onde, le passelere le gera dute piene de gransèle e de gramài. Avilìo con la testa sbassada el Capitano el veva tacò a fa una in massada e, metùa in banda dopo finìa, prima de ciò sù un’altra, alsada la testa el vidi i cocài che un giosso più in là, i gera drio magnà e barufà tra de luri. El credeva che i fussi drio magnà un pesse de quìi grandi ma ghe gera vignùi i sgrìssuli ’pena visto smove un brasseto che ‘l sercheva de parà via i cocài. El gera ’ndò de corsa a fali scanpà, butasse in sdinociòn pa paràla de luri. El brasseto el gera de na fiola che la rispireva ancora. La veva qualchi becòn su i brassi, ma la gera ancora viva.
La se lamentèva ma no la gera bona de parlà gnanca na parola. Distrigada de la rete, ciolta in brasso la cicia, el gera drio portala in batela co el veva sintùo el motoscafo. Sensa gnanca savè el parché el se gera metùo a core drio i sterpi inserca de scondesse. Gera i carbinieri de Lignan, che forsi i ’ndeva vede de la fiola. No lo ga visto nissun e, na volta menada a casòn con la batela, el decidi de tignila posta che la ghe fassa conpagnìa. Trovada oro la velma in spaza, parché no la parleva, che no ’l saveva come ciamala, el ghe veva dò nome "Velma".
I primi zurni, el gera duto rabioso con ela parché no la parleva, che cussì no la ghe feva conpagnìa. El Capitano el ghe salteva sù, la ruspèva de cativo anca se no la feva gnente. Po’, pian pianin, tra elo e la fiola gera nato e cressùo un grando afeto, tanto grando che, in ultima, co al Capitano ghe ciapa el mal de ’ndà oltra, dopo che lo veva jutò a strassinasse sul giogo che ’l ndeva senpre a pregà in scondòn, Velma no la xe bona de lassalo sòl, la speta insieme che crissi l’aqua e la decidi de ’ndà de oltra con elo.
Velma
L’ano passò i gera vignùi a domandame se podevo traduse in maranese el mediometragio "Velma". El gera stò pensò e scrito dal regista Piero Tomaselli, un zovene de Servignan che ’l se ga formò a Roma, drento la Nuct de Cinecità.
Tomaselli el veva de svilupalo in forma senegiata e co i xe vignùi a sercame, sol el pensier de fa cognosse mèjo el nostro paese e la nostra parlada fora de Maran, ghe vevo dito indruman de sì.
Piero el veva insielto Maran, parché el se gera inamorò del nostro palùo, de le isole Sant’Andrea e Marineta, de l’oasi, de i casuni, par no parlà del paese e de la zente maranese. ’Mo tacò lavorà e semo ’ndài vanti un bel tòco posta giustà i discursi in maranese. Anca co i aturi Giorgio Monte, Emanuele Buttus, Gianmarco Tognazzi e quìi altri ciamài a fa qualchi tòco, ’mo lavorò par mete insieme le batùe, insielze quele che suneva mèjo in maranese.
Mancheva sol de tacà a girà el mediometragio. Gera de vènere, gerévomo drio tornà de la Marineta e in scafo se veva deciso de scuminsià luni, parché doménega sarissi rivada la cinepresa de Bologna. Piero ghe gera rivada na telefonada e el gera deventò de colpo bianco: la lo viseva che la Region e la banca i veva tajò el contributo e i veva dito che se ne riparleva forsi l’ano dopo. A bordo gera come che i ne vissi sparò, che i vissi copò qualchidun. Vévomo studiò i giughi par zurni, metùo posto el casòn, speso fadighe e movùo zente par gnente. Na telefonada la xe bastada par mandà a l’aria duto. Co Maran se ’mo lassài, avilìi, credévomo che romai "Velma" la sarissi stada na roba insumiada. Co in magio de sto ano Piero Tomaselli el me ga telefonò de tignì pronto el scafo, parché in setenbre vévomo de scuminsià girà el cine, no me pareva gnanca vero, saltevo de contentessa par elo e anca par quìi zùvini de la trup, che romài i gera deventài come de fameja.
"Velma" xe na storia ’sai triste tocada al Capitano (inpersonò da Giorgio Monte), un pescaòr maranese che, persa la fia e la mujer t’un bruto incidente el gera ’ndò fora de testa. Persi i semenài, veva tacò daghe fastidio duto e duti, e cussì el gera ’ndò vive sol a casòn. Là podeva ’ndà trovalo sol Manuel un zovene maranese un giosso stranbo, che ‘l ’ndèva cioghe el pesse e vèndeghelo par cronpaghe de magnà e le sigarete.
La storia la conta che el Capitano quela note no ’l gera stò bon de serà ocio colpa del mar grosso, del pensier che ’l veva calò la rete massa rente la spiaza. La matina dopo el sintiva ancora le onde che le sbateva e cussì, montò in batela, invissi de ’ndà fora in mar vogando, la veva ligada sul pontil a bonassa de la marineta. Capitano el gera ’ndò a pìe par vede ’ndove che gera ’ndada sbate la rete, ma somejèva come che ’l savissi là che la gera, dato che ’pena fora i sterpi el gera ’ndò sbate col naso parsora el maso de lore. Strassinàe in spiaza con le onde, le passelere le gera dute piene de gransèle e de gramài. Avilìo con la testa sbassada el Capitano el veva tacò a fa una in massada e, metùa in banda dopo finìa, prima de ciò sù un’altra, alsada la testa el vidi i cocài che un giosso più in là, i gera drio magnà e barufà tra de luri. El credeva che i fussi drio magnà un pesse de quìi grandi ma ghe gera vignùi i sgrìssuli ’pena visto smove un brasseto che ‘l sercheva de parà via i cocài. El gera ’ndò de corsa a fali scanpà, butasse in sdinociòn pa paràla de luri. El brasseto el gera de na fiola che la rispireva ancora. La veva qualchi becòn su i brassi, ma la gera ancora viva.
La se lamentèva ma no la gera bona de parlà gnanca na parola. Distrigada de la rete, ciolta in brasso la cicia, el gera drio portala in batela co el veva sintùo el motoscafo. Sensa gnanca savè el parché el se gera metùo a core drio i sterpi inserca de scondesse. Gera i carbinieri de Lignan, che forsi i ’ndeva vede de la fiola. No lo ga visto nissun e, na volta menada a casòn con la batela, el decidi de tignila posta che la ghe fassa conpagnìa. Trovada oro la velma in spaza, parché no la parleva, che no ’l saveva come ciamala, el ghe veva dò nome "Velma".
I primi zurni, el gera duto rabioso con ela parché no la parleva, che cussì no la ghe feva conpagnìa. El Capitano el ghe salteva sù, la ruspèva de cativo anca se no la feva gnente. Po’, pian pianin, tra elo e la fiola gera nato e cressùo un grando afeto, tanto grando che, in ultima, co al Capitano ghe ciapa el mal de ’ndà oltra, dopo che lo veva jutò a strassinasse sul giogo che ’l ndeva senpre a pregà in scondòn, Velma no la xe bona de lassalo sòl, la speta insieme che crissi l’aqua e la decidi de ’ndà de oltra con elo.
Il gradese, lingua non riconosciuta. Di A. C. Marocco
IL DIALETTO DELL’ISOLA DI GRADO:
DAL POETA, PATRIOTA E PROFESSORE SEBASTIANO SCARAMUZZA
AL GRANDE POETA BIAGIO MARIN
E ALLA LITURGIA.
Sull’importante tema dell’interesse e validità attuali e passati del dialetto gradese Augusto C. Marocco ha inviato il seguente contributo conoscitivo a Telecapodistria, che recentemente ha messo in onda un servizio culturale sul tema e contemporaneamente ha mandato una copia per la pubblicazione sul sito www.grado-online.net che molto volentieri pubblichiamo.
"Premesso che il dialetto di Grado viene da sempre, e quindi anche oggi, correntemente parlato in famiglia e nei rapporti sociali (compresi gli uffici pubblici), per cui si tratta di una parlata che svolge tuttora la sua insostituibile funzione di trasmettitore culturale e delle tradizioni locali, desidererei farne qui, per voi che tra gli altri vostri impegni ve ne occupate e per coloro cui possa interessare, una breve presentazione. Vorrei soprattutto ricordare, ancorché sinteticamente, come questo dialetto, che è vitale per l’Isola d’Oro, si sia in pratica estrinsecato nel secolo appena trascorso, articolandosi in analisi e studi ed esperienze artistiche.
La parlata gradese è stata tenuta a battesimo con un prestigioso saggio da parte di Graziadio Isaia Ascoli alla fine dell’Ottocento, su segnalazione del professore gradese Sebastiano Scaramuzza cui si deve sull’argomento un accorato studio giovanile. In seguito all’uscita (1912) di Fiuri de tapo, il primo libro di B. Marin, viene pubblicata da Emilio Mulitsch una sua ricerca fonologica sulla silloge. Nel secolo scorso è anche uscito (1970) uno studio completo del professor Manlio Cortelazzo e un altro parimenti importante (1980) del professor Giuseppe Francescato, cui nello stesso anno si aggiunge una fondamentale ricerca e analisi del professor Giovanni Frau circa i toponimi gradesi del centro abitato e, si badi, della laguna. Le forme del gradese sono state tratteggiate anche da me in un libretto (1983), che affronta in modo "facile" i temi grammaticali nell’inento di renderli maggiormente accessibili. Quindi è uscito ancora un altro lavoro grammaticale (1988) scritto da Ferruccio De Grassi. Ci sono anche un saggio di glossario (1979) e un vocabolario (1995) rispettivamente di L: Deluisa e A. Corbatto. Innumerevoli sono altri saggi e articoli pubblicati.
Sul gradese scritto, soprattutto in poesia, c’è una produzione davvero oceanica. Oltre ai primi documenti in Caprin (1890), il già citato Scaramuzza (versi, prose e traduzioni dal greco) e Domenico Marchesini (anch’egli versi e prose), abbiamo l’astro di Biagio Marin, proposto per il Premio Nobel, che davvero nella sue liriche ha dato dignità di lingua alla nostra parlata dall’inizio alla fine del sec. XX: egli ha consegnato alla storia un vero indelebile monumento alla Poesia e alla graisanità. Inoltre tantissimi sono i cosiddetti "minori", taluni anche da notare come Giovanni Siata, Mauro Marchesan, Salvatore Degrassi, Lucio Degrassi, Edy Tonon, Antonio Zentilin, ecc., mentre il popolo da oltre cinquant’anni, oggi con patrón Aldo Regolin, si organizza un proprio festival della canzone (le migliori della passerella rimangono poi nel patrimonio di tutti e vengono cantate alle feste, come quelle con i testi di Giacomo Zuberti ad esempio, di Mario Pigo e Mario Boemo, di Onorio Dissette, di Enzo Italia e Alberto Camuffo, con tantissimi altri meritevoli di citazione, compresi i musicisti da Attilio Gordini a Dante Marchesan e Nandi Sumann, da Matteo Olivotto a Ferruccio Tognon, da E.A. Martino e Gino Zuliani a Seba). Possiamo oggi anche parlare di un teatro gradese con il binomio Svettini e Giovanni Stiata e con bravissimi attori quali Giglio Boemo e Nevio Scaramuzza. Si pensi che prima della guerra avevamo anche un trovatore, ricordato come Piero Canàro, che inventava lí per lí alla chitarra le sue canzoni e filastrocche; e anche ai nostri tempi vi sono dei veri artisti, autori di testi in gradese doc e musiche pieni di pathos e tragica ironia popolana come Ciano Siego e Tronbài. Ci sono perfino autori non gradesi, che il dialetto lo hanno voluto studiare e poi hanno saputo metterlo ottimamente in pratica, come il triestino Aurelio Ciacchi e il friulano Lelo Cjanton.
Negli ultimi anni la nostra parlata, per la prima volta nella storia, si è volta verso i testi sacri, con la mia traduzione in gradese della S. Messa propria dei Patroni, la cui Sequenza è stata declamata nel nostro Duomo (Basilica di Sant’Eufemia) durante la solenne celebrazione dei Santi martiri Ermacora e Fortunato alla presenza delle autorità cittadine, e del Te Deum, recitato, in simbiosi con il popolo, direttamente dal compianto mons. Silvano Fain, che espressamente mi aveva chiesto di tradurre. Infine, allo scopo di celebrare il Giubileo 2000 ricordando il monsignore scomparso e salutando l’ingresso a Grado del nuovo Arciprete mons. Armando Zorzin, è da poco uscito un libro con la traduzione in gradese del Vangelo di San Marco, pure da me curata. Anche brani del vangelo in gradese sono stati letti in Duomo durante solenni e appropriate funzioni. Mi è inoltre assai gradito poter qui annunciare che sto lavorando da anni su tre diversi progetti riguardanti il nostro dialetto e la sua genesi: ciò per sottolineare che c’è sempre qualcuno a Grado che vuole fare qualcosa affinché non vada perduto nel tempo questo atavico tesoro della gente.
A conclusione vorrei dire che, ancorché non si possa parlare di una vera e propria lingua formalmente riconosciuta, siamo tuttavia sulla buona strada, visti anche i presuppoosti qui pur brevemente enumerati. Sicuramente ci troviamo di fronte a un dialetto con caratteri originali suoi propri, distinti da quelli del circondario e parlato in un territorio assai ben delimitato.
Augusto C. Marocco
DAL POETA, PATRIOTA E PROFESSORE SEBASTIANO SCARAMUZZA
AL GRANDE POETA BIAGIO MARIN
E ALLA LITURGIA.
Sull’importante tema dell’interesse e validità attuali e passati del dialetto gradese Augusto C. Marocco ha inviato il seguente contributo conoscitivo a Telecapodistria, che recentemente ha messo in onda un servizio culturale sul tema e contemporaneamente ha mandato una copia per la pubblicazione sul sito www.grado-online.net che molto volentieri pubblichiamo.
"Premesso che il dialetto di Grado viene da sempre, e quindi anche oggi, correntemente parlato in famiglia e nei rapporti sociali (compresi gli uffici pubblici), per cui si tratta di una parlata che svolge tuttora la sua insostituibile funzione di trasmettitore culturale e delle tradizioni locali, desidererei farne qui, per voi che tra gli altri vostri impegni ve ne occupate e per coloro cui possa interessare, una breve presentazione. Vorrei soprattutto ricordare, ancorché sinteticamente, come questo dialetto, che è vitale per l’Isola d’Oro, si sia in pratica estrinsecato nel secolo appena trascorso, articolandosi in analisi e studi ed esperienze artistiche.
La parlata gradese è stata tenuta a battesimo con un prestigioso saggio da parte di Graziadio Isaia Ascoli alla fine dell’Ottocento, su segnalazione del professore gradese Sebastiano Scaramuzza cui si deve sull’argomento un accorato studio giovanile. In seguito all’uscita (1912) di Fiuri de tapo, il primo libro di B. Marin, viene pubblicata da Emilio Mulitsch una sua ricerca fonologica sulla silloge. Nel secolo scorso è anche uscito (1970) uno studio completo del professor Manlio Cortelazzo e un altro parimenti importante (1980) del professor Giuseppe Francescato, cui nello stesso anno si aggiunge una fondamentale ricerca e analisi del professor Giovanni Frau circa i toponimi gradesi del centro abitato e, si badi, della laguna. Le forme del gradese sono state tratteggiate anche da me in un libretto (1983), che affronta in modo "facile" i temi grammaticali nell’inento di renderli maggiormente accessibili. Quindi è uscito ancora un altro lavoro grammaticale (1988) scritto da Ferruccio De Grassi. Ci sono anche un saggio di glossario (1979) e un vocabolario (1995) rispettivamente di L: Deluisa e A. Corbatto. Innumerevoli sono altri saggi e articoli pubblicati.
Sul gradese scritto, soprattutto in poesia, c’è una produzione davvero oceanica. Oltre ai primi documenti in Caprin (1890), il già citato Scaramuzza (versi, prose e traduzioni dal greco) e Domenico Marchesini (anch’egli versi e prose), abbiamo l’astro di Biagio Marin, proposto per il Premio Nobel, che davvero nella sue liriche ha dato dignità di lingua alla nostra parlata dall’inizio alla fine del sec. XX: egli ha consegnato alla storia un vero indelebile monumento alla Poesia e alla graisanità. Inoltre tantissimi sono i cosiddetti "minori", taluni anche da notare come Giovanni Siata, Mauro Marchesan, Salvatore Degrassi, Lucio Degrassi, Edy Tonon, Antonio Zentilin, ecc., mentre il popolo da oltre cinquant’anni, oggi con patrón Aldo Regolin, si organizza un proprio festival della canzone (le migliori della passerella rimangono poi nel patrimonio di tutti e vengono cantate alle feste, come quelle con i testi di Giacomo Zuberti ad esempio, di Mario Pigo e Mario Boemo, di Onorio Dissette, di Enzo Italia e Alberto Camuffo, con tantissimi altri meritevoli di citazione, compresi i musicisti da Attilio Gordini a Dante Marchesan e Nandi Sumann, da Matteo Olivotto a Ferruccio Tognon, da E.A. Martino e Gino Zuliani a Seba). Possiamo oggi anche parlare di un teatro gradese con il binomio Svettini e Giovanni Stiata e con bravissimi attori quali Giglio Boemo e Nevio Scaramuzza. Si pensi che prima della guerra avevamo anche un trovatore, ricordato come Piero Canàro, che inventava lí per lí alla chitarra le sue canzoni e filastrocche; e anche ai nostri tempi vi sono dei veri artisti, autori di testi in gradese doc e musiche pieni di pathos e tragica ironia popolana come Ciano Siego e Tronbài. Ci sono perfino autori non gradesi, che il dialetto lo hanno voluto studiare e poi hanno saputo metterlo ottimamente in pratica, come il triestino Aurelio Ciacchi e il friulano Lelo Cjanton.
Negli ultimi anni la nostra parlata, per la prima volta nella storia, si è volta verso i testi sacri, con la mia traduzione in gradese della S. Messa propria dei Patroni, la cui Sequenza è stata declamata nel nostro Duomo (Basilica di Sant’Eufemia) durante la solenne celebrazione dei Santi martiri Ermacora e Fortunato alla presenza delle autorità cittadine, e del Te Deum, recitato, in simbiosi con il popolo, direttamente dal compianto mons. Silvano Fain, che espressamente mi aveva chiesto di tradurre. Infine, allo scopo di celebrare il Giubileo 2000 ricordando il monsignore scomparso e salutando l’ingresso a Grado del nuovo Arciprete mons. Armando Zorzin, è da poco uscito un libro con la traduzione in gradese del Vangelo di San Marco, pure da me curata. Anche brani del vangelo in gradese sono stati letti in Duomo durante solenni e appropriate funzioni. Mi è inoltre assai gradito poter qui annunciare che sto lavorando da anni su tre diversi progetti riguardanti il nostro dialetto e la sua genesi: ciò per sottolineare che c’è sempre qualcuno a Grado che vuole fare qualcosa affinché non vada perduto nel tempo questo atavico tesoro della gente.
A conclusione vorrei dire che, ancorché non si possa parlare di una vera e propria lingua formalmente riconosciuta, siamo tuttavia sulla buona strada, visti anche i presuppoosti qui pur brevemente enumerati. Sicuramente ci troviamo di fronte a un dialetto con caratteri originali suoi propri, distinti da quelli del circondario e parlato in un territorio assai ben delimitato.
Augusto C. Marocco
mercoledì 21 gennaio 2009
I linguaggi parlati nel Friuli Venezia Giulia
Composizione plurilingue del territorio del Friuli Venezia Giulia
Luogo di incontro e di intersezione delle tre grandi civiltà europee, quella
latina, quella germanica e quella slava, il Friuli Venezia Giulia rappresenta
un'area linguistico-culturale complessa nella quale, accanto alla lingua
italiana (nella sua forma standard e nelle sue varianti regionali), convivono altri
idiomi romanzi, slavi e germanici che fanno del territorio regionale un vero e
proprio microcosmo plurilingue.
Le principali varietà romanze ‘native’ sono rispettivamente il friulano,
che rappresenta la variante orientale di un autonomo tipo linguistico (il ladino),
e il veneto, praticato sia nella forma ‘coloniale’ tipica della Venezia Giulia e
dei principali centri urbani del Friuli sia sotto forma di adstrato sia infine, ad
esempio nelle località lagunari, come parlata di antico insediamento. Per
quanto riguarda la componente slavofona, esistono compatti territori di
espressione slovena a ridosso del confine nelle province di Trieste e Gorizia
oltre a varie comunità disseminate nella provincia di Udine, nelle valli del
Natisone (Slavia Veneta) e del Torre e nella Val Resia, nella Val Canale e nel
Tarvisiano; isole linguistiche tedesche infine si annoverano in provincia di
Udine a Timau, nel territorio del comune di Paluzza, e a Sauris. Si devono poi
fare i conti con l'italiano regionale, che costituisce ormai la modalità
espressiva di larghe cerchie di parlanti non più dialettofoni. Questo articolato
insieme di tipi idiomatici concorre a delineare, come si vede, un panorama
linguistico ben più ricco di quanto si pensi, nel quale trovano posto oggi anche
molte lingue straniere, come riflesso della composizione multietnica della
società di oggi.
Per quanto riguarda in modo specifico il repertorio linguistico di area
friulana, esso si presenta molto articolato e non rientra perfettamente né nel
bilinguismo né negli schemi della diglossia.
Dal punto di vista del n u m e r o delle varietà praticate, una prima
specificità è l'esistenza in Friuli di una diffusa condizione trilingue, che
comporta cioè la presenza, accanto all'italiano e friulano, di una o più varianti
di dialetto veneto. Nei centri maggiori del Friuli (Udine, Palmanova,
Cervignano ecc.) il repertorio linguistico dei parlanti - ed in particolare di
quanti appartengano a determinati strati sociali come borghesia e commercianti
- può infatti arricchirsi di una terza varietà, un tipo di veneto ‘coloniale’,
ereditato dalla dominazione veneziana, che divide con l'italiano il ruolo di
lingua di prestigio; va peraltro osservato che, dopo un certo periodo di notevole
‘tenuta’, questa varietà sta conoscendo una certa regressione, a vantaggio
dell'altra lingua positivamente connotata in senso sociale, ossia l'italiano. In
altre zone del Friuli (nel Pordenonese e a ridosso della province di Venezia,
Belluno e Treviso) la presenza del veneto dipende da vicinanza geografica; in
taluni casi può affiancarsi al friulano in altri anche soppiantarlo nell'uso.
Dal punto di vista del t i p o d i r e g i m e b i l i n g u e , ci si pone il
problema se il rapporto tra friulano e italiano ovvero tra veneto e italiano
aderisca più agli schemi del bilinguismo ovvero a quelli della diglossia
(naturalmente laddove convivono l'una accanto all'altra tutte e tre le varietà,
l'alternativa si porrà fra trilinguismo e triglossia). Qui la risposta è di necessità
articolata: se fino a qualche tempo fa probabilmente si doveva parlare di
diglossia, in quanto i due codici erano nettamente separati nel repertorio dei
parlanti ed assolvevano a funzioni complementari (le pratiche comunicative
formali erano esclusivamente affidate all'italiano; il friulano per contro era
tipicamente ristretto alla conversazione familiare, alla comunicazione fra amici
e con persone note), oggi il rapporto tra italiano e friulano è meglio
interpretabile in termini di bilinguismo in quanto possono intervenire parziali
sovrapposizioni e coincidenze funzionali: da una parte infatti il friulano, anche
sotto la spinta di fenomeni di autoidentificazione e di ‘lealtà linguistica’, è
praticato in una certa misura come mezzo espressivo anche al livello della
comunicazione pubblica e della scrittura letteraria; dall'altra l'italiano,
diventando lingua nativa di larghe cerchie di parlanti, estende il suo spazio
comunicativo anche a quei domini informali che in passato erano di pertinenza
delle varietà locali.
1. Friulano
- Ambito di diffusione
Ai fini della determinazione dell'area linguistica friulana, bisogna tenere conto
della distinzione tra Friuli storico e attuale configurazione della regione
friulanofona. Così se storicamente il limite occidentale dell'area linguistica di
espressione friulana coincideva con il corso del Fiume Livenza (fino al 1838 ad
esempio il territorio di Portogruaro era nella giurisdizione del Friuli), tale
confine "si è poi modificato nei secoli successivi, rendendo difficile individuare
una linea di separazione precisa fra il dominio del friulano e quello
del veneto" (Anna Maria Boileau, I gruppi linguistici nella Regione Friuli-
Venezia Giulia, in IRRSAE 2001, 2, p. 8); analogamente ad est di tipo friulano
era la parlata preveneta di Trieste e Muggia sopravvissuta fino agli inizi del
XIX secolo. Oggi il friulano è effettivamente parlato nelle province di Udine,
Gorizia e Pordenone; oltre che in alcune propaggini della provincia di Venezia
(comuni di Lugugnana e Bevazzana).
- Vitalità
Secondo stime di massima (la più recente è quella desumibile dalla Ricerca
sulla condizione sociolinguistica del friulana, Udine 2001, curata da Linda
Picco e coordinata da Raimondo Strassoldo), in rapporto a un bacino potenziale
calcolato in 715.000 abitanti, il friulano è effettivamente praticato dal 57,2%
della popolazione residente, pari a circa 430.000 parlanti.
-Varietà di friulano
Secondo l'analisi di Francescato 1982a, pp. 65-67 è possibile distinguere fra le
seguenti varietà:
a) friulano "centrale";
b) varietà goriziana;
c) tipo carnico;
d) tipo della Carnia occidentale "che si incontra nella valle del Degano con le
sue diramazioni e nella valle d'Arzino" (p. 66);
e) friulano occidentale.
Sono considerate varietà atipiche l'area di Forni di Sotto e Forni Sopra (esposta
a modelli venetizzanti), l'alta valle del Cellina con il dialetto di Erto.
2. Parlate venete praticate nel territorio del Friuli Venezia Giulia
All?interno del territorio del Friuli Venezia Giulia sono praticate anche
delle varietà venete riconducibili a diverse matrici.
2.1 Varietà venete di antico insediamento
Sono da considerare tali da una parte le parlate di Grado e Marano
Lagunare e dall'altra il cosiddetto bisiacco, che costituiscono "probabilmente la
diretta continuazione del tardo latino locale" (Francescato).
I dialetti di Grado e Marano sono riusciti a conservare la loro impronta
dialettale veneta nonostante la prossimità con la terraferma di espressione
compattamente friulana (a ridosso di Grado e Marano ci sono infatti
rispettivamente Aquileia e Carlino che sono centri friulanofoni); a proposito
delle varietà gradese e maranese si è parlato di ‘veneto lagunare’ (Carla
Marcato) sia per l'ambito geografico sia per la connessione storica con
l'insieme degli analoghi centri che si distribuiscono lungo tutto l'arco lagunare
alto-adriatico fino a Chioggia.
Per quanto riguarda il bisiacco (localmente bisiàc), è praticato nella
parte meridionale della provincia di Gorizia, il cosiddetto Territorio, con centro
di riferimento Monfalcone. Tuttavia il bisiacco vero e proprio non si parla in
questa cittadina (dove, semmai, si usa una sorta di triestino o un bisiacco
talmente contaminato da elementi triestini che non si può più definire tale), "ma
nel suo entroterra, in un triangolo che ha per lati il Golfo di Panzano, il corso
dell'Isonzo dalla foce (Sdobba) fino a Sagrado e la cresta collinare, con cui
termina l'altipiano carsico ... sino alle porte di Monfalcone stessa" (Doria 1986,
p. 481 della rist.). Sulla scia di Pellis 1930, Zamboni conferma la delimitazione
dell'area dialettale bisiacca col triangolo Sagrado - San Canzian d'Isonzo -
Monfalcone e la segnala come meglio conservata nei centri di Pieris, Begliano
e Fogliano. Nel complesso, in base alla classificazione di Pfister, i comuni
compresi nell'area dialettale bisiacca sono Monfalcone, Staranzano, Ronchi dei
Legionari, San Canzian d'Isonzo, Turriaco, San Pier d'Isonzo, Fogliano
Redipuglia e Sagrado, tutti in provincia di Gorizia. Circa l'origine di tale
varietà, c'è chi l'ha attribuita ad una sovrapposizione del veneto su un idioma di
ceppo friulano (Pellis) e c'è invece chi (Crevatin 1978), sulla base di nuovi e
più ampi materiali, avanza l'ipotesi "che esso possa piuttosto essere il risultato
finale di una parlata veneta autoctona storicamente legata alla costante presenza
veneziana" (Ursini 1988, p. 542).
2.2 Veneto di 'contatto'
Tra il Tagliamento e il Livenza, nel Friuli occidentale ed in particolare
lungo la fascia di confine veneto-friulana (oggetto delle indagini condotte da
Lüdtke nel 1957) troviamo un modello veneto irradiato da località adiacenti (è
giudicato prossimo a quello parlato in territorio trevigiano-bellunese), e dunque
dovuto a diretto contatto linguistico.
Il confine linguistico tra area venetofona e area friulanofona passa lungo
la linea Montereale Valcellina - Giais - Aviano - Dardago - Budoia -
Mezzomonte - Polcenigo - Vigonovo - Fontanafredda - Palse lasciando fuori
Sacile e Sarone.
Si devono in particolare considerare i dialetti cosiddetti veneto-friulani,
sistemi ibridi parlati in una fascia che "parte sotto l'altipiano del Cansiglio, alle
sorgenti del Livenza, ed include Polcenigo, Budoia, Aviano (con le
relativefrazioni), Vigonovo, Fontanafredda, Palse (in comune di Porcia), ipaesi
compresi tra Pordenone e Azzano Decimo (ad esempio Cimpello), Bannia,
Pescincanna e Farturlongo in Comune di Fiume Veneto, Chions con Villotta,
Bagnarola" (Rizzolatti 1996).
Una posizione particolare spetta infine alla parlata veneta della città di
Pordenone che negli strati sociali alti esibisce un veneto di tipo veneziano e
nelle classi medio-basse si avvicina a quella trevigiana (Marcato 2001, p. 46).
2.3 Veneto 'coloniale'
Con l'aggettivo ‘coloniale’ si intendono quelle varietà di veneto che, in
quanto praticate in aree non contigue a quelle in cui il veneto è nativo, non
devono la loro diffusione a un contatto geografico ma al prestigio che Venezia,
con la sua classe dirigente, aveva saputo irradiare al di fuori dei propri confini
in seguito alla supremazia della Serenissima (ci riferiamo in particolare al
periodo compreso fra il 1420 e il 1797 quando il Friuli centro-occidentale si
trovava nella giurisdizione della Repubblica di Venezia). Si tratta di varietà per
così dire ‘paracadutate’ dall'alto dal momento che "il rapporto tra friulano e
veneto non avviene in questo caso attraverso il contatto tra due comunità che
parlano i loro dialetti popolari, cioè diciamo attraverso un contatto orizzontale,
ma attraverso un contatto per così dire verticale, attraverso un processo di
acquisizione, da parte delle classi sociali più interessate alla mobilità, di una
varietà socialmente più prestigiosa in quanto parlata dai ceti dirigenti del Friuli,
di origine veneziana" (Vanelli 2000, p. 259).
Nel Friuli udinese le varietà venete coloniali sono radicate soprattutto nei
centri urbani, in particolare nel capoluogo (il veneto corrente a Udine prende il
nome di veneto udinese o semplicemente udinese) ma anche nei centri
intermedi come Palmanova, Spilimbergo, Codroipo.
Appartiene alle varietà di tipo ‘coloniale’ anche l'attuale dialetto
triestino, il quale soppiantò il vecchio idioma di tipo friulano parlato al suo
posto fin verso il 1830 ed al quale, per distinguerlo dal "triestino moderno" (o
semplicemente "triestino"), Graziadio Isaia Ascoli (Saggi ladini, 1873, p. 479)
applicò la denominazione di tergestino.
A sua volta il veneto di tipo triestino, muovendo dal capoluogo giuliano,
tocca Monfalcone e poi, risalendo il corso dell'Isonzo attraverso l'area bisiacca
(Ronchi, Pieris, Sagrado ecc.), raggiunge la città di Gorizia per esaurirsi infine
nei dintorni del centro isontino "(a sud-est di Cormons) dove incontra il tipo
veneto della “koiné” udinese" (Francescato 1964; rist. 1970, p. 61).
3. Sloveno
La presenza di una minoranza slovena nello Stato italiano risale
all'annessione delle "Province della Venezia", conseguente al trattato di pace
del 3 ottobre 1866, che, al termine della III Guerra d'indipendenza, incluse nei
confini del regno anche gli abitanti della "Slavia veneta". La modesta
consistenza numerica dell'insediamento e il clima culturale poco propenso alla
valorizzazione delle culture minoritarie, fece sì che fino alla prima guerra
mondiale il gruppo rimanesse del tutto privo di tutela giuridica.
Gli equilibri sarebbero cambiati alla fine della prima guerra mondiale
quando entrarono a far parte dello Stato italiano da una parte l'area linguistica
slovena della Val Canale in provincia di Udine e dall'altra soprattutto la ben più
cospicua popolazione di lingua slovena della Venezia Giulia. Si pose da allora
con forza il problema dell'identità slovena all'interno della comunità italiana;
fortemente contrastata nel periodo del fascismo, la comunità slovena ha
gradualmente guadagnato una ben precisa posizione nel secondo dopoguerra
fino al recente riconoscimento legislativo attuato con la legge n. 38 del 2001.
Lo sloveno è parlato, con diversi gradi di tutela e di vitalità, nelle
province di Trieste, Gorizia e Udine.
Nella provincia di Trieste troviamo la parlata slovena nel centro della
città, nella periferia (Chiarbola, Servola, Guardiella, Barcola, Gretta, Scorcola,
Roiana) e nelle frazioni del comune di Trieste (Santa Croce sopra Trieste,
Prosecco, Contovello,Villa Opicina, Trebiciano, Basovizza), nonché nei
comuni attorno a Trieste (S. Dorligo della Valle, Duino-Aurisina, Sgonicco,
Monrupino).
Nella provincia di Gorizia la parlata slovena vive ancora nei sobborghi
della città e nell'area collinare a nord del capoluogo (Collio).
Per la provincia di Udine parlate di ceppo sloveno resistono nella Val
Canale, in Val Resia, nelle valli del Torre e del Natisone; è doveroso mettere in
evidenza la complessa situazione della Val Canale dove convivono elementi
linguistici del mondo romanzo, germanico e slavo rappresentando l'unico caso
in cui si incontrano queste tre culture.
In assenza di un censimento linguistico generalizzato (il quesito
sull'appartenenza linguistica, previsto fino al 1961 per la sola provincia di
Trieste, non è stato più proposto nei successivi censimenti), una
quantificazione della popolazione di lingua slovena è difficile; essa è tuttavia è
calcolabile con buona approssimazione tra un minimo di 50 e un massimo di
100 mila persone.
1)
Tradizionalmente interpretato come continuazione del lat. bis aquae "con allusione al fatto che l'area si trova
tra i fiumi Timavo e Isonzo" (la formulazione è ripresa da Marcato 2002, p. 342, n. 119), il termine va più
probabilmente riconnesso con it. bislacco, con allusione a una parlata stentata, o con slov. bezjak "stupido" o
meglio nella specifica valenza di "profugo, fuggitivo", magari con riferimeno alle "popolazioni che si sono
trasferite o rifugiate in queste terre per sfuggire a guerre o invasioni" (Vicario 2005, p. 30).
(Il testo si trova in http://www.orioles.it/materiali/pn/Plurilinguismo_Friul)
Luogo di incontro e di intersezione delle tre grandi civiltà europee, quella
latina, quella germanica e quella slava, il Friuli Venezia Giulia rappresenta
un'area linguistico-culturale complessa nella quale, accanto alla lingua
italiana (nella sua forma standard e nelle sue varianti regionali), convivono altri
idiomi romanzi, slavi e germanici che fanno del territorio regionale un vero e
proprio microcosmo plurilingue.
Le principali varietà romanze ‘native’ sono rispettivamente il friulano,
che rappresenta la variante orientale di un autonomo tipo linguistico (il ladino),
e il veneto, praticato sia nella forma ‘coloniale’ tipica della Venezia Giulia e
dei principali centri urbani del Friuli sia sotto forma di adstrato sia infine, ad
esempio nelle località lagunari, come parlata di antico insediamento. Per
quanto riguarda la componente slavofona, esistono compatti territori di
espressione slovena a ridosso del confine nelle province di Trieste e Gorizia
oltre a varie comunità disseminate nella provincia di Udine, nelle valli del
Natisone (Slavia Veneta) e del Torre e nella Val Resia, nella Val Canale e nel
Tarvisiano; isole linguistiche tedesche infine si annoverano in provincia di
Udine a Timau, nel territorio del comune di Paluzza, e a Sauris. Si devono poi
fare i conti con l'italiano regionale, che costituisce ormai la modalità
espressiva di larghe cerchie di parlanti non più dialettofoni. Questo articolato
insieme di tipi idiomatici concorre a delineare, come si vede, un panorama
linguistico ben più ricco di quanto si pensi, nel quale trovano posto oggi anche
molte lingue straniere, come riflesso della composizione multietnica della
società di oggi.
Per quanto riguarda in modo specifico il repertorio linguistico di area
friulana, esso si presenta molto articolato e non rientra perfettamente né nel
bilinguismo né negli schemi della diglossia.
Dal punto di vista del n u m e r o delle varietà praticate, una prima
specificità è l'esistenza in Friuli di una diffusa condizione trilingue, che
comporta cioè la presenza, accanto all'italiano e friulano, di una o più varianti
di dialetto veneto. Nei centri maggiori del Friuli (Udine, Palmanova,
Cervignano ecc.) il repertorio linguistico dei parlanti - ed in particolare di
quanti appartengano a determinati strati sociali come borghesia e commercianti
- può infatti arricchirsi di una terza varietà, un tipo di veneto ‘coloniale’,
ereditato dalla dominazione veneziana, che divide con l'italiano il ruolo di
lingua di prestigio; va peraltro osservato che, dopo un certo periodo di notevole
‘tenuta’, questa varietà sta conoscendo una certa regressione, a vantaggio
dell'altra lingua positivamente connotata in senso sociale, ossia l'italiano. In
altre zone del Friuli (nel Pordenonese e a ridosso della province di Venezia,
Belluno e Treviso) la presenza del veneto dipende da vicinanza geografica; in
taluni casi può affiancarsi al friulano in altri anche soppiantarlo nell'uso.
Dal punto di vista del t i p o d i r e g i m e b i l i n g u e , ci si pone il
problema se il rapporto tra friulano e italiano ovvero tra veneto e italiano
aderisca più agli schemi del bilinguismo ovvero a quelli della diglossia
(naturalmente laddove convivono l'una accanto all'altra tutte e tre le varietà,
l'alternativa si porrà fra trilinguismo e triglossia). Qui la risposta è di necessità
articolata: se fino a qualche tempo fa probabilmente si doveva parlare di
diglossia, in quanto i due codici erano nettamente separati nel repertorio dei
parlanti ed assolvevano a funzioni complementari (le pratiche comunicative
formali erano esclusivamente affidate all'italiano; il friulano per contro era
tipicamente ristretto alla conversazione familiare, alla comunicazione fra amici
e con persone note), oggi il rapporto tra italiano e friulano è meglio
interpretabile in termini di bilinguismo in quanto possono intervenire parziali
sovrapposizioni e coincidenze funzionali: da una parte infatti il friulano, anche
sotto la spinta di fenomeni di autoidentificazione e di ‘lealtà linguistica’, è
praticato in una certa misura come mezzo espressivo anche al livello della
comunicazione pubblica e della scrittura letteraria; dall'altra l'italiano,
diventando lingua nativa di larghe cerchie di parlanti, estende il suo spazio
comunicativo anche a quei domini informali che in passato erano di pertinenza
delle varietà locali.
1. Friulano
- Ambito di diffusione
Ai fini della determinazione dell'area linguistica friulana, bisogna tenere conto
della distinzione tra Friuli storico e attuale configurazione della regione
friulanofona. Così se storicamente il limite occidentale dell'area linguistica di
espressione friulana coincideva con il corso del Fiume Livenza (fino al 1838 ad
esempio il territorio di Portogruaro era nella giurisdizione del Friuli), tale
confine "si è poi modificato nei secoli successivi, rendendo difficile individuare
una linea di separazione precisa fra il dominio del friulano e quello
del veneto" (Anna Maria Boileau, I gruppi linguistici nella Regione Friuli-
Venezia Giulia, in IRRSAE 2001, 2, p. 8); analogamente ad est di tipo friulano
era la parlata preveneta di Trieste e Muggia sopravvissuta fino agli inizi del
XIX secolo. Oggi il friulano è effettivamente parlato nelle province di Udine,
Gorizia e Pordenone; oltre che in alcune propaggini della provincia di Venezia
(comuni di Lugugnana e Bevazzana).
- Vitalità
Secondo stime di massima (la più recente è quella desumibile dalla Ricerca
sulla condizione sociolinguistica del friulana, Udine 2001, curata da Linda
Picco e coordinata da Raimondo Strassoldo), in rapporto a un bacino potenziale
calcolato in 715.000 abitanti, il friulano è effettivamente praticato dal 57,2%
della popolazione residente, pari a circa 430.000 parlanti.
-Varietà di friulano
Secondo l'analisi di Francescato 1982a, pp. 65-67 è possibile distinguere fra le
seguenti varietà:
a) friulano "centrale";
b) varietà goriziana;
c) tipo carnico;
d) tipo della Carnia occidentale "che si incontra nella valle del Degano con le
sue diramazioni e nella valle d'Arzino" (p. 66);
e) friulano occidentale.
Sono considerate varietà atipiche l'area di Forni di Sotto e Forni Sopra (esposta
a modelli venetizzanti), l'alta valle del Cellina con il dialetto di Erto.
2. Parlate venete praticate nel territorio del Friuli Venezia Giulia
All?interno del territorio del Friuli Venezia Giulia sono praticate anche
delle varietà venete riconducibili a diverse matrici.
2.1 Varietà venete di antico insediamento
Sono da considerare tali da una parte le parlate di Grado e Marano
Lagunare e dall'altra il cosiddetto bisiacco, che costituiscono "probabilmente la
diretta continuazione del tardo latino locale" (Francescato).
I dialetti di Grado e Marano sono riusciti a conservare la loro impronta
dialettale veneta nonostante la prossimità con la terraferma di espressione
compattamente friulana (a ridosso di Grado e Marano ci sono infatti
rispettivamente Aquileia e Carlino che sono centri friulanofoni); a proposito
delle varietà gradese e maranese si è parlato di ‘veneto lagunare’ (Carla
Marcato) sia per l'ambito geografico sia per la connessione storica con
l'insieme degli analoghi centri che si distribuiscono lungo tutto l'arco lagunare
alto-adriatico fino a Chioggia.
Per quanto riguarda il bisiacco (localmente bisiàc), è praticato nella
parte meridionale della provincia di Gorizia, il cosiddetto Territorio, con centro
di riferimento Monfalcone. Tuttavia il bisiacco vero e proprio non si parla in
questa cittadina (dove, semmai, si usa una sorta di triestino o un bisiacco
talmente contaminato da elementi triestini che non si può più definire tale), "ma
nel suo entroterra, in un triangolo che ha per lati il Golfo di Panzano, il corso
dell'Isonzo dalla foce (Sdobba) fino a Sagrado e la cresta collinare, con cui
termina l'altipiano carsico ... sino alle porte di Monfalcone stessa" (Doria 1986,
p. 481 della rist.). Sulla scia di Pellis 1930, Zamboni conferma la delimitazione
dell'area dialettale bisiacca col triangolo Sagrado - San Canzian d'Isonzo -
Monfalcone e la segnala come meglio conservata nei centri di Pieris, Begliano
e Fogliano. Nel complesso, in base alla classificazione di Pfister, i comuni
compresi nell'area dialettale bisiacca sono Monfalcone, Staranzano, Ronchi dei
Legionari, San Canzian d'Isonzo, Turriaco, San Pier d'Isonzo, Fogliano
Redipuglia e Sagrado, tutti in provincia di Gorizia. Circa l'origine di tale
varietà, c'è chi l'ha attribuita ad una sovrapposizione del veneto su un idioma di
ceppo friulano (Pellis) e c'è invece chi (Crevatin 1978), sulla base di nuovi e
più ampi materiali, avanza l'ipotesi "che esso possa piuttosto essere il risultato
finale di una parlata veneta autoctona storicamente legata alla costante presenza
veneziana" (Ursini 1988, p. 542).
2.2 Veneto di 'contatto'
Tra il Tagliamento e il Livenza, nel Friuli occidentale ed in particolare
lungo la fascia di confine veneto-friulana (oggetto delle indagini condotte da
Lüdtke nel 1957) troviamo un modello veneto irradiato da località adiacenti (è
giudicato prossimo a quello parlato in territorio trevigiano-bellunese), e dunque
dovuto a diretto contatto linguistico.
Il confine linguistico tra area venetofona e area friulanofona passa lungo
la linea Montereale Valcellina - Giais - Aviano - Dardago - Budoia -
Mezzomonte - Polcenigo - Vigonovo - Fontanafredda - Palse lasciando fuori
Sacile e Sarone.
Si devono in particolare considerare i dialetti cosiddetti veneto-friulani,
sistemi ibridi parlati in una fascia che "parte sotto l'altipiano del Cansiglio, alle
sorgenti del Livenza, ed include Polcenigo, Budoia, Aviano (con le
relativefrazioni), Vigonovo, Fontanafredda, Palse (in comune di Porcia), ipaesi
compresi tra Pordenone e Azzano Decimo (ad esempio Cimpello), Bannia,
Pescincanna e Farturlongo in Comune di Fiume Veneto, Chions con Villotta,
Bagnarola" (Rizzolatti 1996).
Una posizione particolare spetta infine alla parlata veneta della città di
Pordenone che negli strati sociali alti esibisce un veneto di tipo veneziano e
nelle classi medio-basse si avvicina a quella trevigiana (Marcato 2001, p. 46).
2.3 Veneto 'coloniale'
Con l'aggettivo ‘coloniale’ si intendono quelle varietà di veneto che, in
quanto praticate in aree non contigue a quelle in cui il veneto è nativo, non
devono la loro diffusione a un contatto geografico ma al prestigio che Venezia,
con la sua classe dirigente, aveva saputo irradiare al di fuori dei propri confini
in seguito alla supremazia della Serenissima (ci riferiamo in particolare al
periodo compreso fra il 1420 e il 1797 quando il Friuli centro-occidentale si
trovava nella giurisdizione della Repubblica di Venezia). Si tratta di varietà per
così dire ‘paracadutate’ dall'alto dal momento che "il rapporto tra friulano e
veneto non avviene in questo caso attraverso il contatto tra due comunità che
parlano i loro dialetti popolari, cioè diciamo attraverso un contatto orizzontale,
ma attraverso un contatto per così dire verticale, attraverso un processo di
acquisizione, da parte delle classi sociali più interessate alla mobilità, di una
varietà socialmente più prestigiosa in quanto parlata dai ceti dirigenti del Friuli,
di origine veneziana" (Vanelli 2000, p. 259).
Nel Friuli udinese le varietà venete coloniali sono radicate soprattutto nei
centri urbani, in particolare nel capoluogo (il veneto corrente a Udine prende il
nome di veneto udinese o semplicemente udinese) ma anche nei centri
intermedi come Palmanova, Spilimbergo, Codroipo.
Appartiene alle varietà di tipo ‘coloniale’ anche l'attuale dialetto
triestino, il quale soppiantò il vecchio idioma di tipo friulano parlato al suo
posto fin verso il 1830 ed al quale, per distinguerlo dal "triestino moderno" (o
semplicemente "triestino"), Graziadio Isaia Ascoli (Saggi ladini, 1873, p. 479)
applicò la denominazione di tergestino.
A sua volta il veneto di tipo triestino, muovendo dal capoluogo giuliano,
tocca Monfalcone e poi, risalendo il corso dell'Isonzo attraverso l'area bisiacca
(Ronchi, Pieris, Sagrado ecc.), raggiunge la città di Gorizia per esaurirsi infine
nei dintorni del centro isontino "(a sud-est di Cormons) dove incontra il tipo
veneto della “koiné” udinese" (Francescato 1964; rist. 1970, p. 61).
3. Sloveno
La presenza di una minoranza slovena nello Stato italiano risale
all'annessione delle "Province della Venezia", conseguente al trattato di pace
del 3 ottobre 1866, che, al termine della III Guerra d'indipendenza, incluse nei
confini del regno anche gli abitanti della "Slavia veneta". La modesta
consistenza numerica dell'insediamento e il clima culturale poco propenso alla
valorizzazione delle culture minoritarie, fece sì che fino alla prima guerra
mondiale il gruppo rimanesse del tutto privo di tutela giuridica.
Gli equilibri sarebbero cambiati alla fine della prima guerra mondiale
quando entrarono a far parte dello Stato italiano da una parte l'area linguistica
slovena della Val Canale in provincia di Udine e dall'altra soprattutto la ben più
cospicua popolazione di lingua slovena della Venezia Giulia. Si pose da allora
con forza il problema dell'identità slovena all'interno della comunità italiana;
fortemente contrastata nel periodo del fascismo, la comunità slovena ha
gradualmente guadagnato una ben precisa posizione nel secondo dopoguerra
fino al recente riconoscimento legislativo attuato con la legge n. 38 del 2001.
Lo sloveno è parlato, con diversi gradi di tutela e di vitalità, nelle
province di Trieste, Gorizia e Udine.
Nella provincia di Trieste troviamo la parlata slovena nel centro della
città, nella periferia (Chiarbola, Servola, Guardiella, Barcola, Gretta, Scorcola,
Roiana) e nelle frazioni del comune di Trieste (Santa Croce sopra Trieste,
Prosecco, Contovello,Villa Opicina, Trebiciano, Basovizza), nonché nei
comuni attorno a Trieste (S. Dorligo della Valle, Duino-Aurisina, Sgonicco,
Monrupino).
Nella provincia di Gorizia la parlata slovena vive ancora nei sobborghi
della città e nell'area collinare a nord del capoluogo (Collio).
Per la provincia di Udine parlate di ceppo sloveno resistono nella Val
Canale, in Val Resia, nelle valli del Torre e del Natisone; è doveroso mettere in
evidenza la complessa situazione della Val Canale dove convivono elementi
linguistici del mondo romanzo, germanico e slavo rappresentando l'unico caso
in cui si incontrano queste tre culture.
In assenza di un censimento linguistico generalizzato (il quesito
sull'appartenenza linguistica, previsto fino al 1961 per la sola provincia di
Trieste, non è stato più proposto nei successivi censimenti), una
quantificazione della popolazione di lingua slovena è difficile; essa è tuttavia è
calcolabile con buona approssimazione tra un minimo di 50 e un massimo di
100 mila persone.
1)
Tradizionalmente interpretato come continuazione del lat. bis aquae "con allusione al fatto che l'area si trova
tra i fiumi Timavo e Isonzo" (la formulazione è ripresa da Marcato 2002, p. 342, n. 119), il termine va più
probabilmente riconnesso con it. bislacco, con allusione a una parlata stentata, o con slov. bezjak "stupido" o
meglio nella specifica valenza di "profugo, fuggitivo", magari con riferimeno alle "popolazioni che si sono
trasferite o rifugiate in queste terre per sfuggire a guerre o invasioni" (Vicario 2005, p. 30).
(Il testo si trova in http://www.orioles.it/materiali/pn/Plurilinguismo_Friul)
martedì 20 gennaio 2009
Racconti nella parlata veneta di Marano Lagunare
PASQUA DE SESSANTA ANI FA
Gera un Sabo Santo e se vigniva a casa co le barche bele pulìe, e se vogheva forte par no perde el Gloria e anca par bagnasse i oci; l'aria la gera profumada de aleghe, piene de oxigeno, pa'l palmo ogni tanto se vedeva le prime sisìle che le riveva stanche, ogni tanto qualche pavègia sbruntàda dal vento l'andeva a riposà sui fiuri; in te'l siél se sintiva l'alegro canto de le lòdole che le ringrassieva el Signor volando senpre più in delto. "Pasqua, vogia o no vogia la vien co la fogia", cussì ne conteva i nostri veci e nantre, prima de mete i pìe par tera, par ringrassià el Signor par tanta salute che 'l ne ga dò in te la prima stagion de l'ano, se andeva pa'i àlziri a ciò i primi fiuri bianchi e faghe un bel masso e portaghelo a la mama, ela lo ganbieva con tanti basi e con vuvi coti de duti i culuri, par 'ndà in te'l indoman in piassa a ziogà co 'na mesa palànca.
A Pasqua le mame le ne conteva la Passión de Cristo e dopo scalsi se andéva par la strada tirando le caéne del fughér par lustrale ma, anca, par ciapasse qualche palanca in più de la paga e fa ben la festa.
Le mame le ne diseva ancora: vìssere de le me vìssere, no ste andà pa'le strade descalsi, che podè ciapà qualche malan e po biniditi fantulini xe ancora fresculìn, e pronto el nono el diseva: "Xe marso, chi no ga scarpe el po andà scalso", e nantre via de corsa tirando la corda con tacàe le caéne. Gera tanto bel anca el Venere Santo. A la sera dopo la predica de la Passión, quando che se conpagneva le prossessión pa'le vie iluminàe, ricordo ancora i bei altarini co la crose bianca e l'agnelìn che 'l ciameva só mare povareto, el gera pien de paura par i rumuri dei raculùni, de le ràcole e dei batitàcoli e lu no 'l podeva mòvese de l'altarìn, parchè el gera ligò e alora i fioi pìculi i vignìva in cusìna con le só mare par tocàlo e caressàlo.
A Pasqua, 'na volta dopo la Messa de le nove se andéva in ostarìa o da la "Binte" o da la "Ridischina" e se magnéva i bisàti friti con vin bianco e pan de quel bón e, cussì, se andéva presto in glòria.
Domenico Tempo, 1980, Marano Lagunare
Era un Sabato Santo e si ritornava a casa con le barche belle pulite, e si remava forte per non perdersi il Gloria ed anche per potersi bagnare gli occhi; l'aria odorava d'alghe, piene d'ossigeno, ogni tanto si vedevano le prime rondini che arrivavano stanche, ogni tanto qualche farfalla sospinta dal vento andava a riposarsi sui fiori; nel cielo si udiva allegro il canto delle allodole che ringraziavano il Signore volando sempre più in alto. "Pasqua, voglia o non voglia arriva con la foglia", così ci raccontavano i nostri vecchi e noi, prima di posare i piedi a terra, per ringraziare il Signore per tutta la salute che ci aveva dato nella prima stagione dell'anno, andavamo lungo gli argini a prendere i primi fiori bianchi per farne un bel mazzo e portarlo alla mamma: lei ricambiava con tanti baci e uova sode dipinte con tanti colori diversi, per andare all'indomani in piazza a giocare con un mezzo soldino.
A Pasqua le mamme ci raccontavano la storia della Passione di Cristo e poi, scalzi, andavamo per le strade trascinando le catene del focolare per pulirle dalla caligine ma, anche, per avere qualche soldino in più di paga per passare bene quei giorni di festa.
Le mamme ci dicevano ancora: creature, non andate per le strade scalzi, che rischiate di farvi male e poi, bambini cari, fuori fa ancora fresco; allora pronto il nonno gli rispondeva: "È marzo, chi non ha scarpe vada scalzo", e noi via di corsa tirando la corda a cui erano attaccate le catene. Era bellissimo anche il Venerdì Santo.
Alla sera dopo la predica sulla Passione, quando si seguiva le processioni lungo le vie illuminate, ricordo ancora i bei altarini con la croce bianca e l'agnellino che chiamava sua madre, poverino; era pieno di paura sentendo il frastuono delle raganelle di legno mentre lui non poteva muoversi dall'altarino, perché legato, e allora i bambini più piccoli venivano in cucina con le loro madri per toccarlo ed accarezzarlo.
A Pasqua, un tempo dopo la Messa delle nove si andava in osteria o dalla "Binte" o dalla "Ridischina" e si mangiavano le anguille fritte con il vino bianco di quello buono e così, ben presto, eravamo tutti allegri.
in http://www.bassafriulana.org/cultura/ass-culturali/ad_undecimum/annuari/annuario05/testipdf/La%20storia%20de%20na%20pessivendola.pdf.
La storia de ‘na pessivendola
Quando le gera ancora in vita go racolto diverse storie da le pessivendole de
‘na volta che volentieri le se conteva parché protagoniste, el ricordo de quìi
tinpi anca se precari le inànemeva. Gera storie de duro lavor, de fadighe dignitose
afrontàe senpre cò un grando corajo e ‘na granda fede, certe de vè vesto
senpre vissìn un sicuro aiuto da parte de Dio e de la Madona de la Salute.
Sta qua la me xe stada contada da la siora Marcella Z. classe 1905, che a 15
ani come tante zovenete dequìi tinpi la gera stada aviada al mistier de vende
pesse, da so mare. «Partiva con altre conpagne e done de ‘na certa età,
-la me spiega- fevomo la strada a pie e col bigòl, cò do sisti in banda, un
par gancio, sisti pìini de pesse cò la zonta de cualchi Kilo de cape o caparosso-
li, merce che comprevomo in pescarìa. Le strade, benedeta fia, no le gera miga
come quele de ‘desso, ma piene de goduli, polvere, buse d’ogni stiata, te pol
imaginà cò quanta fadiga ‘ndevomo ‘vanti pà rivà in t’el paese ‘ndove che ve-
vomo de vende sto pesse. Capiteva a volte che se sintìvomo tanto stanche –la
continua- e alora fevomo ‘na sosta o anca un pisoloto de sora un leto de piu-
me.
“Un leto de piume?” –ghe domando mi, tanto incuriosìa- e ela la me spiega
subito che le se metèva insima a grumi de giara (ghiaia): “sto qua el gera el
nostro leto de piume”- la me stiarissi soridendo.
Dopo vè fato un toco de strada insìeme, te ga de savè che a un certo punto
se dividevomo, ogni una de naltre la ‘ndeva in t’un paese diverso, mi ‘ndevo a
Gonars, ‘ndove che gera ‘ndò par tanti ani me mare, pà rivà vevo de fà 20 Km.
In sto paese i me ciameva “Marcela. Le fie di Dusuline”, son stada anca fortu-
nada parché ne i ani 1920 e anca dopo, schei ne circoleva puchi, ma a Gonars
essendo un paese de artigiani de calsaùre, dato che la zente la lavoreva, schei
anca se puchi ghe ne gera, cussì no go vesto problemi de vendita, chi no veva
schei de pagame in ganbio del pesse i me deva roba de magnà: farina, carna-
me, vuvi de cortìl, o verdure de orto e sto sganbiolo fasevo volentieri, cussì
portevo a casa roba par sfamà la fameia. L’unica merce che fevo fadiga a vende
gera i caparossoli. Sti qua li ciapèva me marìo, xe sucesso che un zorno no
gero riussìa a vindìli e par no portali indrìo son ‘ndada in t’un altro paese e qua
me son trovada cò ‘na me paesana che la gera pessivendola come mi. ‘Vendo
intuìo el motivo da la me presensa la me ga subito dito:
“parché te vien vende pesse qua, no te sa che sto paese el xe mio?”.
“Che siora che te xe – ghe go risposto- se mi fussi parona de un paese, ven-
darissi ‘na casa al zorno e farissi la vita de ‘na gran signora”. Duto se ga ri-
solto ragionando e la facenda la se ga concluso cò ‘na ridada anca de le clienti
che sensa volè le veva scoltò el nostro discorso.
Quando che nel 1928-29 de inverno se ga ingelò duto el palùo (laguna),
tanto che i zùvini i sbrissoleva sul giasso fin a Lignan, la miseria a Maran la
gera deventada ‘tristeria’. Ma te ga de savè –la continua a contame- che certe
persone a Gonars, ‘vendo savesto de sta granda ingiassada no le se ga dismen-
tegò de me mare e de mi e le se ‘veva fato presenti mandandone roba de magnà,
pur savendo che naltre a causa de sto ingelamento no varessimo podesto,
almanco in quel periodo, ricanbià col pesse».
A contàme sto fato la siora Marcella la se gera comossa, la me veva fato
capì che la sentiva tanta riconossensa nei confrunti de sta brava zente che le
veva giutàe in quel periodo de gran bisogno.
Varissi tante altre robe de contate –la me disi- scarto quele brute e te ne
conto ‘na bela parché la merita, e xe giusto che un doman se la sapia.
Gera el zorno de San Giorgio (23 aprile), mi e altre compaesane, sempre
pessivendole, gerevomo de ritorno a casa, ma savendo che a San Zorzi gera la
festa Patronal e che i ciàmeva senpre dei bravi predicaùri, dute dacordo vemo
messo fora de la cesa sisti e bigòl e semo entràe anca se vèvemo ‘na mondura
(vestiario) cò i tacùni e profumevomo de pesse te pol imaginà… pasiensa!
Doprando la creansa, vemo cercò de metèse in t’un cantoneto vissin a
l’organo, subito se vemo maravejò a vede che il predicaòr gera el nostro pio-
van, don Albino Galletti.
Za che gerevomo drento semo stae fin a Messa finìa, quando che semo vi-
gnùe fora sintìvomo la zente che la comenteva:
“Ma che bravo predicaòr, che bel tinbro de vose, el decanteva le parole come
un poeta, gera un piasser a sentìlo! Ma che bravo, ma che bravo!...”. Naltre a
sintì ste parole gerevomo dute contente, ansi, orgoliose che fussi sto el nostro
Piovan a predicà cussì ben e che le zente la lo veva ‘scoltò volentieri.
Pesse, pessivendole e Elo, prete, pescaòr de omini, pareva che ‘ste parole le
se ciapissi par man.
Ringrassio la siora Marcella de duto quel che la me ga contò, conpresa ‘sta
ultima e bela testimoniansa.
Maria Damonte
Nota: scrito co la parlata veneta maranese
1
Bigòl: arconcello di legno, o bicollo, che veniva usato per poratre i cesti o i secchi d’acqua.
2
Goduli: sassi di varie dimensioni.
3
Caparossoli: tipo di molluschi bianco, nero e grigio, di forma ovale, che si raccoglievano sot-
to fango. Essendo di natura molto delicata a Marano hanno cessato di riprodursi verso gli anni
55-60.
Gera un Sabo Santo e se vigniva a casa co le barche bele pulìe, e se vogheva forte par no perde el Gloria e anca par bagnasse i oci; l'aria la gera profumada de aleghe, piene de oxigeno, pa'l palmo ogni tanto se vedeva le prime sisìle che le riveva stanche, ogni tanto qualche pavègia sbruntàda dal vento l'andeva a riposà sui fiuri; in te'l siél se sintiva l'alegro canto de le lòdole che le ringrassieva el Signor volando senpre più in delto. "Pasqua, vogia o no vogia la vien co la fogia", cussì ne conteva i nostri veci e nantre, prima de mete i pìe par tera, par ringrassià el Signor par tanta salute che 'l ne ga dò in te la prima stagion de l'ano, se andeva pa'i àlziri a ciò i primi fiuri bianchi e faghe un bel masso e portaghelo a la mama, ela lo ganbieva con tanti basi e con vuvi coti de duti i culuri, par 'ndà in te'l indoman in piassa a ziogà co 'na mesa palànca.
A Pasqua le mame le ne conteva la Passión de Cristo e dopo scalsi se andéva par la strada tirando le caéne del fughér par lustrale ma, anca, par ciapasse qualche palanca in più de la paga e fa ben la festa.
Le mame le ne diseva ancora: vìssere de le me vìssere, no ste andà pa'le strade descalsi, che podè ciapà qualche malan e po biniditi fantulini xe ancora fresculìn, e pronto el nono el diseva: "Xe marso, chi no ga scarpe el po andà scalso", e nantre via de corsa tirando la corda con tacàe le caéne. Gera tanto bel anca el Venere Santo. A la sera dopo la predica de la Passión, quando che se conpagneva le prossessión pa'le vie iluminàe, ricordo ancora i bei altarini co la crose bianca e l'agnelìn che 'l ciameva só mare povareto, el gera pien de paura par i rumuri dei raculùni, de le ràcole e dei batitàcoli e lu no 'l podeva mòvese de l'altarìn, parchè el gera ligò e alora i fioi pìculi i vignìva in cusìna con le só mare par tocàlo e caressàlo.
A Pasqua, 'na volta dopo la Messa de le nove se andéva in ostarìa o da la "Binte" o da la "Ridischina" e se magnéva i bisàti friti con vin bianco e pan de quel bón e, cussì, se andéva presto in glòria.
Domenico Tempo, 1980, Marano Lagunare
Era un Sabato Santo e si ritornava a casa con le barche belle pulite, e si remava forte per non perdersi il Gloria ed anche per potersi bagnare gli occhi; l'aria odorava d'alghe, piene d'ossigeno, ogni tanto si vedevano le prime rondini che arrivavano stanche, ogni tanto qualche farfalla sospinta dal vento andava a riposarsi sui fiori; nel cielo si udiva allegro il canto delle allodole che ringraziavano il Signore volando sempre più in alto. "Pasqua, voglia o non voglia arriva con la foglia", così ci raccontavano i nostri vecchi e noi, prima di posare i piedi a terra, per ringraziare il Signore per tutta la salute che ci aveva dato nella prima stagione dell'anno, andavamo lungo gli argini a prendere i primi fiori bianchi per farne un bel mazzo e portarlo alla mamma: lei ricambiava con tanti baci e uova sode dipinte con tanti colori diversi, per andare all'indomani in piazza a giocare con un mezzo soldino.
A Pasqua le mamme ci raccontavano la storia della Passione di Cristo e poi, scalzi, andavamo per le strade trascinando le catene del focolare per pulirle dalla caligine ma, anche, per avere qualche soldino in più di paga per passare bene quei giorni di festa.
Le mamme ci dicevano ancora: creature, non andate per le strade scalzi, che rischiate di farvi male e poi, bambini cari, fuori fa ancora fresco; allora pronto il nonno gli rispondeva: "È marzo, chi non ha scarpe vada scalzo", e noi via di corsa tirando la corda a cui erano attaccate le catene. Era bellissimo anche il Venerdì Santo.
Alla sera dopo la predica sulla Passione, quando si seguiva le processioni lungo le vie illuminate, ricordo ancora i bei altarini con la croce bianca e l'agnellino che chiamava sua madre, poverino; era pieno di paura sentendo il frastuono delle raganelle di legno mentre lui non poteva muoversi dall'altarino, perché legato, e allora i bambini più piccoli venivano in cucina con le loro madri per toccarlo ed accarezzarlo.
A Pasqua, un tempo dopo la Messa delle nove si andava in osteria o dalla "Binte" o dalla "Ridischina" e si mangiavano le anguille fritte con il vino bianco di quello buono e così, ben presto, eravamo tutti allegri.
in http://www.bassafriulana.org/cultura/ass-culturali/ad_undecimum/annuari/annuario05/testipdf/La%20storia%20de%20na%20pessivendola.pdf.
La storia de ‘na pessivendola
Quando le gera ancora in vita go racolto diverse storie da le pessivendole de
‘na volta che volentieri le se conteva parché protagoniste, el ricordo de quìi
tinpi anca se precari le inànemeva. Gera storie de duro lavor, de fadighe dignitose
afrontàe senpre cò un grando corajo e ‘na granda fede, certe de vè vesto
senpre vissìn un sicuro aiuto da parte de Dio e de la Madona de la Salute.
Sta qua la me xe stada contada da la siora Marcella Z. classe 1905, che a 15
ani come tante zovenete dequìi tinpi la gera stada aviada al mistier de vende
pesse, da so mare. «Partiva con altre conpagne e done de ‘na certa età,
-la me spiega- fevomo la strada a pie e col bigòl, cò do sisti in banda, un
par gancio, sisti pìini de pesse cò la zonta de cualchi Kilo de cape o caparosso-
li, merce che comprevomo in pescarìa. Le strade, benedeta fia, no le gera miga
come quele de ‘desso, ma piene de goduli, polvere, buse d’ogni stiata, te pol
imaginà cò quanta fadiga ‘ndevomo ‘vanti pà rivà in t’el paese ‘ndove che ve-
vomo de vende sto pesse. Capiteva a volte che se sintìvomo tanto stanche –la
continua- e alora fevomo ‘na sosta o anca un pisoloto de sora un leto de piu-
me.
“Un leto de piume?” –ghe domando mi, tanto incuriosìa- e ela la me spiega
subito che le se metèva insima a grumi de giara (ghiaia): “sto qua el gera el
nostro leto de piume”- la me stiarissi soridendo.
Dopo vè fato un toco de strada insìeme, te ga de savè che a un certo punto
se dividevomo, ogni una de naltre la ‘ndeva in t’un paese diverso, mi ‘ndevo a
Gonars, ‘ndove che gera ‘ndò par tanti ani me mare, pà rivà vevo de fà 20 Km.
In sto paese i me ciameva “Marcela. Le fie di Dusuline”, son stada anca fortu-
nada parché ne i ani 1920 e anca dopo, schei ne circoleva puchi, ma a Gonars
essendo un paese de artigiani de calsaùre, dato che la zente la lavoreva, schei
anca se puchi ghe ne gera, cussì no go vesto problemi de vendita, chi no veva
schei de pagame in ganbio del pesse i me deva roba de magnà: farina, carna-
me, vuvi de cortìl, o verdure de orto e sto sganbiolo fasevo volentieri, cussì
portevo a casa roba par sfamà la fameia. L’unica merce che fevo fadiga a vende
gera i caparossoli. Sti qua li ciapèva me marìo, xe sucesso che un zorno no
gero riussìa a vindìli e par no portali indrìo son ‘ndada in t’un altro paese e qua
me son trovada cò ‘na me paesana che la gera pessivendola come mi. ‘Vendo
intuìo el motivo da la me presensa la me ga subito dito:
“parché te vien vende pesse qua, no te sa che sto paese el xe mio?”.
“Che siora che te xe – ghe go risposto- se mi fussi parona de un paese, ven-
darissi ‘na casa al zorno e farissi la vita de ‘na gran signora”. Duto se ga ri-
solto ragionando e la facenda la se ga concluso cò ‘na ridada anca de le clienti
che sensa volè le veva scoltò el nostro discorso.
Quando che nel 1928-29 de inverno se ga ingelò duto el palùo (laguna),
tanto che i zùvini i sbrissoleva sul giasso fin a Lignan, la miseria a Maran la
gera deventada ‘tristeria’. Ma te ga de savè –la continua a contame- che certe
persone a Gonars, ‘vendo savesto de sta granda ingiassada no le se ga dismen-
tegò de me mare e de mi e le se ‘veva fato presenti mandandone roba de magnà,
pur savendo che naltre a causa de sto ingelamento no varessimo podesto,
almanco in quel periodo, ricanbià col pesse».
A contàme sto fato la siora Marcella la se gera comossa, la me veva fato
capì che la sentiva tanta riconossensa nei confrunti de sta brava zente che le
veva giutàe in quel periodo de gran bisogno.
Varissi tante altre robe de contate –la me disi- scarto quele brute e te ne
conto ‘na bela parché la merita, e xe giusto che un doman se la sapia.
Gera el zorno de San Giorgio (23 aprile), mi e altre compaesane, sempre
pessivendole, gerevomo de ritorno a casa, ma savendo che a San Zorzi gera la
festa Patronal e che i ciàmeva senpre dei bravi predicaùri, dute dacordo vemo
messo fora de la cesa sisti e bigòl e semo entràe anca se vèvemo ‘na mondura
(vestiario) cò i tacùni e profumevomo de pesse te pol imaginà… pasiensa!
Doprando la creansa, vemo cercò de metèse in t’un cantoneto vissin a
l’organo, subito se vemo maravejò a vede che il predicaòr gera el nostro pio-
van, don Albino Galletti.
Za che gerevomo drento semo stae fin a Messa finìa, quando che semo vi-
gnùe fora sintìvomo la zente che la comenteva:
“Ma che bravo predicaòr, che bel tinbro de vose, el decanteva le parole come
un poeta, gera un piasser a sentìlo! Ma che bravo, ma che bravo!...”. Naltre a
sintì ste parole gerevomo dute contente, ansi, orgoliose che fussi sto el nostro
Piovan a predicà cussì ben e che le zente la lo veva ‘scoltò volentieri.
Pesse, pessivendole e Elo, prete, pescaòr de omini, pareva che ‘ste parole le
se ciapissi par man.
Ringrassio la siora Marcella de duto quel che la me ga contò, conpresa ‘sta
ultima e bela testimoniansa.
Maria Damonte
Nota: scrito co la parlata veneta maranese
1
Bigòl: arconcello di legno, o bicollo, che veniva usato per poratre i cesti o i secchi d’acqua.
2
Goduli: sassi di varie dimensioni.
3
Caparossoli: tipo di molluschi bianco, nero e grigio, di forma ovale, che si raccoglievano sot-
to fango. Essendo di natura molto delicata a Marano hanno cessato di riprodursi verso gli anni
55-60.
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