Gli scontri, le infinite polemiche sorte in occasione di ogni vertice sul commercio, a partire da quello di Seattle, iniziano a porre interrogativi percepiti come decisivi - anche da parte delle persone meno impegnate - in ogni luogo del pianeta.
Che ne sarà di questo mondo, ci si chiede, della natura, delle tradizioni, di cibi, costumi, linguaggi tramandati a volte da tempi immemorabili?
La necessità di una comunicazione rapida ad esempio - time is money - in un mondo sempre più dominato dall’ossessione di immediati profitti non poteva, da subito, che trovare un ostacolo, un ostacolo di cui sbarazzarsi al più presto, nell’infinita varietà di lingue e dialetti presenti nel nostro pianeta. Varietà che aveva trovato, finora, rifugio nelle enormi difficoltà create dagli spostamenti o dalla mancanza di strumenti come il telefono, il fax, per non parlare di Internet. Ora, comunicare con qualsiasi luogo della terra è, in gran parte, possibile. Le nostre esigenze, del resto, sono cambiate e ciò che ieri era del tutto sconosciuto è diventato oggi, nel giro di pochi anni, per noi assolutamente indispensabile. O ci appare tale. L’offerta, di qualsiasi cosa, si è immensamente allargata rispetto ad un tempo e questo comporta obbligatoriamente il contatto sempre più stretto con chi, in ogni parte del mondo, queste cose ce le può offrire. E non solo merci ma anche musiche di popoli sconosciuti, filosofie diverse dalle nostre e così via di seguito. E tutto questo, non può essere messo in dubbio, è un grande arricchimento per genti che come le nostre a volte, fino ancora a cinquant’anni fa, non vivevano troppo diversamente dai popoli primitivi, spesso abitando entro tuguri malsani, senza cibo né vera istruzione.
Ma come e in che modo il mondo, improvvisamente, giunge nelle nostre case? Qui sorge una legittima perplessità. Nessuno, difatti, può pretendere di conoscere a fondo tante culture tanto diverse e così, spinti perlopiù da un’effimera curiosità, ci accontentiamo di grossolane traduzioni (quasi sempre a loro volta mediate dall’inglese) di altri modi di percepire la realtà in altre, anche lontanissime, parti del mondo. Approfondire è una parola, sembra, sempre più estranea al nostro lessico e dunque, com’è accaduto nel caso della New Age o di certa cosiddetta World Music, ciò che ci si illude di studiare o di sentire non è che una sorta di riassunto ad uso di chi le fonti originarie non avrebbe mai né il tempo, né la costanza, di studiarle. In questo brumoso e infermabile ramificarsi di informazioni che, per non essere state vagliate criticamente da chi le diffonde e da chi le riceve, spesso si rivelano altrettanto inutilizzabili (e in più foriere di confusione) di quando non ne eravamo a conoscenza, in questo preteso abbattimento di ogni distanza, c’è anche chi si pone il problema di salvaguardare come può la fisionomia originaria di antiche culture che oggi rischiano seriamente di scomparire. Già, perché il mito di comunicare con chiunque e ovunque ha avuto come primo ed immediato risultato la necessità, come si diceva, di trovare una lingua comune; e così la possibilità di sopravvivenza di una lingua o di un dialetto non dipende ormai da altro che dal maggiore o minore numero dei suoi parlanti. Si tratta di un problema antico; ma la vertiginosa sparizione di lingue e dialetti a cui assistiamo in questi ultimi decenni non ha precedenti nella storia. Semplicemente, chi non impiega una lingua parlata da almeno qualche milione di persone è destinato ad essere escluso, a vivere confinato e bloccato in un’isola immobile quando tutto, intorno a lui, diventa Oceano, correnti in continuo movimento che si spostano in ogni direzione.
Eppure queste numerosissime lingue parlate nel nostro pianeta sono tutte ugualmente importanti testimonianze della varietà della vita, della relazione millenaria, fisica e spirituale, tra l’uomo e i luoghi in cui è vissuto, per cui la perdita di ognuna di esse significa anche la perdita - irrimediabile - di un sentimento e di una conoscenza profonda delle cose. E non cose genericamente intese, ma esattamente gli elementi specifici che compongono un certo paesaggio e soltanto quello, quegli alberi e quegli animali, quelle rocce e quel cielo. Il rischio è dunque quello che, assieme alle parole, si perda anche ciò che esse nominavano. E, anche qui, in Friuli, il desolante, monotono proliferare di villette e capannoni industriali tutti troppo simili, dal mare fino alle cime delle montagne carniche, sembra tristemente dimostrarlo. Diventa, cioè, più facile distruggere ciò con cui non abbiamo più un rapporto diretto: come nelle guerre, ad esempio, in cui la prima necessità è sempre stata quella di creare una distanza incolmabile tra le parti. Non diventa più così facile, allo stesso modo, abbattere un albero o costruire su un prato se abbiamo imparato a conoscere e a sentire la vita che si agita in queste cose, se un albero o un prato non sono semplicemente due termini vaghi ma hanno un nome preciso, dato ad essi da persone che ne conoscevano ogni remota fibra o le centinaia di creature che da quelle erbe, tutte diverse, tutte con un proprio nome, traevano sostentamento o rifugio.
In questi anni, per puro e cieco calcolo opportunistico mascherato sotto il nome (anche qui significativamente generico) di Progresso, sono state eliminate dal pianeta migliaia di specie animali e vegetali, per non parlare degli innumerevoli disastri ambientali. È quanto è accaduto anche in una regione come la nostra quando, solo per fare un preciso esempio tra i tanti possibili, si decise che la pezzata rossa friulana, un’antica razza bovina di queste zone, non rendeva più e si scelse quindi, senza rimorsi, di sostituirla con altre razze considerate più redditizie. Diffusissima fino a qualche decina d’anni fa in tutte le nostre stalle, di questa specie (di cui quasi nessuno parla) non esistono ormai che pochi esemplari sempre a rischio d'essere abbattuti o incrociati con razze non autoctone.
E la lista degli orrori potrebbe, volendo, continuare per pagine, come lo spettro del “Corridoio 5” che rischia di devastare definitivamente parte del paesaggio della Bassa e quel che resta della Bisiacarìa (dopo l’aeroporto, Centrale, Cantieri navali ecc.) e un buon tratto del Carso monfalconese e triestino.
Per quel che riguarda alcuni linguaggi ritenuti particolarmente significativi si è tentato, in Italia, di salvaguardarli con apposite leggi di tutela. Leggi che però forse, se ci riusciranno, salveranno come abbiamo detto soltanto alcuni dei linguaggi a rischio d’estinzione presenti nel nostro paese. È necessario dunque, a partire da questa importante anche se non in ogni punto condivisibile legge, che proprio chi ha beneficiato di questo riconoscimento e dei finanziamenti ad esso collegati, si adoperi attivamente per estendere quest’opera di salvaguardia delle diversità impegnandosi affinché nulla, di ciò che caratterizza nel profondo il nostro paese, venga sciaguratamente disperso.
Ricordiamo a proposito che, anche se all’interno dei confini dell’antica regione storica del Friuli la lingua friulana è oggi certamente quella maggiormente conosciuta e diffusa, da molti secoli questi territori sono stati caratterizzati anche dalla presenza di altri (non meno significativi e meritevoli di tutela) linguaggi. Parliamo delle parlate medievali tedesche in alcune località della Carnia e di quelle - legate al mondo slavo o sloveno a seconda della loro vetustà, isolamento fisico o ragioni storiche - della Val di Resia, delle valli del Natisone, fino ad arrivare al Carso monfalconese. Vi sono poi altre tre comunità, le cui parlate sono state definite “venete autoctone”, nel senso di luoghi in cui il veneto non è stato semplicemente il linguaggio adottato dagli strati più abbienti, com’è successo nelle città di Udine o Palmanova ad esempio, ma - come minimo da almeno quattro, cinque secoli - è diventato il linguaggio impiegato dalla maggioranza della popolazione, dai contadini all’alta borghesia. Ci riferiamo a cittadine come Grado e Marano ed alla Bisiacarìa, cioè gli otto comuni del monfalconese. Ma non si può dimenticare altri importanti linguaggi, qui, come il triestino, il pordenonese e le altre parlate di tipo veneto presenti in regione. Come sappiamo, il friulano, lo sloveno ed il tedesco hanno avuto finalmente, con la legge di tutela delle minoranze linguistiche 482/1999, un loro giusto riconoscimento. Non godono, al momento attuale invece, né da parte dello Stato né da parte della Regione, di alcuna forma di tutela gli altri linguaggi citati dianzi. Questo nonostante si tratti di parlate di straordinario interesse, secondo il parere di molti studiosi italiani ed esteri. Parlate ancora ricchissime di antichi termini veneti ma, anche, di alcuni straordinari relitti lessicali friulani e sloveni medievali. Si tratta, difatti, di vere e proprie “isole linguistiche” che hanno continuato ad impiegare, nel loro isolamento, parole altrove abbandonate ormai, a volte, già da alcuni secoli. Hanno impiegato questi linguaggi per dar voce ai loro sentimenti più profondi, tra l’altro, grandi poeti come il gradese Biagio Marin - tradotto in ogni parte del globo - fino ad arrivare tra gli altri, in anni più recenti, alla celebre cantante monfalconese Elisa, che ha esordito cantando in bisiaco. Tutti questi elementi dovrebbero essere più che sufficienti a spingere la nostra Regione a cercare di salvaguardare in ogni modo questo straordinario patrimonio - linguistico e culturale - che contribuisce a rafforzare in modo ancora più forte la sua “specialità”, mi sembra, rispetto ad altre regioni della penisola. Paradossalmente, invece, le leggi di tutela delle minoranze linguistiche storiche hanno avuto, specialmente su buona parte del mondo politico, un effetto opposto rispetto a quello che ci si sarebbe aspettato. L’approvazione di questa legge non ha coinciso, difatti, con un aumento di sensibilità ed attenzione nei confronti di tutti quei linguaggi che oggi, in un mondo sempre più globalizzato, sono a rischio d’estinzione. La legge 482 è diventata per alcuni, invece, un ottimo alibi per non occuparsi più - od occuparsi in modi a dir poco risibili - di tutto ciò che lo Stato ha relegato (speriamo non definitivamente!) nel limbo dei “dialetti”. Si dice: “Lo Stato ha detto chiaramente quali sono le lingue meritevoli di essere tutelate. Perché si dovrebbe perdere tempo e soldi pubblici per occuparsi d’altro?”. Se questi ragionamenti fossero accettati non saremmo mai arrivati, però, nemmeno alle leggi di tutela attuali. Come esempio dell'arbitrarietà di questi ragionamenti valga, per tutti, il caso del sardo: fino al 1995 il governo italiano parlava sempre ed esclusivamente di dialetti sardi, negandone la dignità linguistica, mentre due anni dopo veniva approvata dal governo la legge sulla lingua sarda (con l’ovvia conseguenza che oggi nessun politico si sognerebbe di definire il sardo un “dialetto”).
Noi invece affermiamo con forza che la scomparsa di questi linguaggi sarebbe per la nostra regione una perdita irreparabile. Nonostante questo, le associazioni che si impegnano per sottrarre all’oblio queste parlate sono spesso ignorate ed ogni loro appello cade nel vuoto. Eppure la logica vorrebbe che si desse, in primis, una mano a chi è in maggiore difficoltà.
Dunque, quello che qui si chiede è un ulteriore, comune passo in avanti nella salvaguardia della stupefacente varietà che contraddistingue il Friuli Venezia Giulia gettando, fin d’ora, le basi per un serio piano di tutela delle parlate storiche regionali.
La sopravvivenza e la continuità delle cose può dipendere quindi dal nostro volerle o non volerle custodire e cercare di mantenerle in vita. È, in gran parte una questione di scelte. Dipende soltanto da noi, dalla nostra attenzione - traghettandole con la nostra opera vigile e costante di difesa verso il domani - se l’oblio avrà alla fine il sopravvento.
Il friulano, lo sloveno con le altre parlate slave, il tedesco e gli idiomi storici veneti: diademi luminosi e rari, di cui mai vorremmo vedere la nostra regione spogliata.
IVAN CRICO
martedì 20 gennaio 2009
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