Su Leonardo Brumati
e le prime testimonianze intorno alla “lingua bisiacha”
di IVAN CRICO
Partiamo da un’interessantissima risposta - ancor oggi pochissimo conosciuta e citata - ad una lettera andata perduta (come ricordava Silvio Domini nell’articolo “L’epistolario dell’abate Brumati” pubblicato nel 1994 sulla rivista «Bisiacaria») di Jacopo Pirona. In questa lettera, molto probabilmente, l’insigne studioso metteva l’amico al corrente dei suoi studi per un vocabolario friulano e gli chiedeva lumi sui nomi italiani di certe piante ed animali. L’abate Leonardo Brumati, nella sua lettera, scrisse comunicandogli che anch’egli stava preparando uno studio sulla sua parlata nativa affermando inoltre, con una certa bonaria ironia, di non conoscere il friulano come non lo conoscevano, del resto, i suoi amici del Territorio quando insieme studiavano ad Udine:
“Io pure sto mettendo a parte qualche materiale per un lavoro sul dialetto del mio paese; ma a chi mai, parmi sentirla esclamare, potrà servir uno scritto sulla lingua d’un così angusto luogo qual è il Territorio di Monfalcone. (…) Pure formando esso un tempo i principali sobborghi della seconda Roma in Italia conservano tutt’ora i suoi abitanti nel loro linguaggio una grandissima analogia con quelli del Lazio, e specialmente i nomi degli oggetti di storia naturale s’avvicinano ai latini assai più che non i Toscani medesimi; onde parmi poter giustamente dir qualche cosa in favore degli Italiani in confronto degli Etruschi, che non contenti di primeggiare pretendono anche signoreggiare nell’Italica favella. Osserverò qui di passaggio, che noi, è ben vero, abbiamo troncato per comodo e facilità di discorrere una gran parte delle parole terminate per vocale, ma ci siamo preservati dalla terminazione in “ao”, lasciata agli abitanti di Grado e di altri paesi marittimi delle venezie dai Greci, che sotto gli Esarchi di Ravenna li dominarono. Queste ed altre ragioni mi determinarono a trattar un soggetto, il quale andando privo di ogni interesse, mi avrà fatto passar almeno qualche ora istruendomi.
Circa la sua richiesta devo dire: che, o non ben La intendo, o Ella vuol da me cose superiori alle mie forze. Come vuol Ella che Le dia i nomi friulani degli oggetti appartenenti alla storia naturale se non ne conosco il dialetto? Per ciò che Le dissi qui sopra, Ella può conoscere che riguardo alla lingua sono fuori del Friuli, e se sono stato alle scuole in Udine, allorché avevamo il bene di appartenere a codesta Diocesi, poiché appunto il nostro linguaggio più del loro accostavasi all’italiano ed al latino, che si studiavano, eravamo sì scioccamente superbi di esso, che sdegnavamo di parlar il loro”.
Ma chi è l’autore di questa lettera e cos’era questo linguaggio parlato nel Territorio di Monfalcone che il Brumati si premura di distinguere, nei primi anni dell’Ottocento, tanto nettamente dal friulano?
Cerchiamo, dunque, di rispondere alla prima domanda che ci farà conoscere una figura singolare ma poco conosciuta, di straordinaria modernità, su cui vale davvero la pena di soffermarsi. Leonardo Brumati nacque a Ronchi dei Legionari ( chiamata al tempo “Ronchi di Monfalcone”) il 4 agosto 1774 da un’umile famiglia di artigiani. Come ricordava Silvio Domini nelle belle pagine a lui dedicate (da cui abbiamo ampiamente tratto le note seguenti), dimostrando fin da piccolo una non comune intelligenza, venne fatto studiare da Giuseppe Berini, anch’esso di origine ronchese, importante archeologo, storico e traduttore di classici, nato nel 1762 e morto nel 1820. Leonardo Brumati compì i suoi studi superiori a Udine e successivamente, per meriti personali, fu invitato a Venezia dove ebbe modo di perfezionare le materie, soprattutto di tipo scientifico, per le quali era naturalmente portato. Pochi mesi dopo la caduta della Serenissima, il 14 gennaio 1837, ricevette a Gorizia l’ordine sacro.
A Vermegliano, un piccolo paese presso Ronchi dei Legionari, fu cappellano esposito. Presso il "Ginnasio" di Monfalcone, in cui insegnarono anche Giuseppe Berini, Alessandro Stagni, Domenico Scocchi e Francesco Cosani, e dove si distinse per le sue doti di insegnante di fisica, scienze naturali e grammatica latina. L'istituzione scolastica ebbe, però, vita breve: fu difatti soppressa dall’Austria che vedeva, in questi insegnanti di vedute assai avanzate per l’epoca, abituati ad intrattenere contatti con i maggiori studiosi europei, dei fautori di idee libertarie e antiaustriache. Il Brumati, di conseguenza, fu a lungo osteggiato tanto da spingerlo ad un soggiorno, probabilmente forzato, in Istria. Rientrato in questi luoghi, che divennero negli anni l’oggetto principale di tanti appassionati e precisi studi, divenne cappellano festivo a Staranzano. Rimase però a vivere in una sua casa che possedeva nel borgo ronchese di San Vito e a Vermegliano dove, tra l’altro, creò un suo Orto Botanico visitato da prestigiosi studiosi italiani e stranieri. Contatti che sono testimoniati anche da un interessantissimo epistolario con lettere del chimico francese Gaj Lussac, del conchigliologo Buillet, del celebre professor Bertoloni di Bologna, dello scienziato tedesco Guglielmo Schiede di Cassel d’Assia, del botanico triestino Bortolo Biasoletto, del filologo Jacopo Pirona (autore del grande vocabolario friulano, che si era avvalso, come abbiamo detto, del Brumati per tradurre esattamente in italiano nomi di piante ed animali del vicino Friuli), e della poetessa friulana Caterina Percoto, che soggiornava spesso a Ronchi dei Legionari. Tra questi, inoltre, anche uno dei massimi botanici tedeschi, il Reichenbach (1793-1879) che gli dedicò il nome di una pianta che cresce lungo le rive del Natisone, il “Leontodon Brumati” appunto. Fu tra i fondatori dell’Orto Botanico di Urbino e, per la sua opera di ricercatore instancabile, preparatissimo, ottenne l’encomio solenne dell’Accademia delle scienze di Francia e un ambito riconoscimento della Società dell’Agricoltura di Milano.
Presso le Biblioteche di Udine e Gorizia sono conservate più di una ventina di sue opere manoscritte, ma soltanto due suoi lavori, escludendo i numerosi articoli apparsi su giornali o riviste del tempo, furono pubblicati in vita: il Catalogo sistematico delle conchiglie terrestri e fluviali osservate nel Territorio di Monfalcone edito a Gorizia nel 1838 dalla tipografia Paternolli, e la lunghissima ode anacreontica, intitolata Per Messa Novella, dedicata a Don Giovanni Battista Nob. Dottori e fatta stampare a Udine nel 1838 da Padre Pietro Benedetti presso la tipografia Murero.
Il Brumati sentì il bisogno di diffondere fra il popolo, dal quale proveniva, una cultura pratica - specialmente nel campo dell’agricoltura - che era frutto delle sue esperimentazioni, dei suoi studi e, se si vuole, della sua notevole erudizione. E nella prima metà del secolo scorso fu lui il personaggio trainante della comunità contadina e non solo di questa, fu lui il consigliere, il burbero amico, il confortatore, il maestro. Arrivava sul suo calés, trainato dal musset, per andare da una stalla all’altra, dalle vigne alla palude, dalla chiesa alla canonica-scuola con la tonaca impolverata e la barba incolta. Si rimboccava le maniche per insegnare, lavorando insieme ai gruppi che lo aspettavano o lo mandavano a chiamare. È merito suo se le donne staranzanesi (e quelle vermeglianesi) iniziarono la raccolta di quelle erbe e di quelle piante che, per diversi scopi, venivano preparate e portate a vendere a Trieste. L’opera di questo uomo genuino - particolare per quei tempi - favorì pure l’economia del paese, ma soprattutto gettò le basi di quelle idee e aspirazioni nuove (compito difficile in una comunità contadina e conservatrice!) che furono lievito sociale e culturale per molti decenni.
Era creduto e ascoltato, perché la sua azione disinteressata era ben diversa da quelle di coloro che non si ponevano neppure il problema dell’emancipazione delle classi subalterne e che curavano soltanto gli interessi personali e la conservazione dei privilegi. Con la sua voce tonante, tramandano i vecchi, si esprimeva nel colorito e vigoroso dialetto antico, mezzo insostituibile per entrare nelle menti di poveri analfabeti o quasi, piuttosto restii alle innovazioni; dialetto che egli sentì il bisogno di fissare sulle pagine dei suoi interessanti e precisi cataloghi sistematici della flora e della fauna del Territorio. Al Brumati sono stati attribuiti anche gli ottanta Detti sentenziosi, proverbi, adagi e pronostici de' Contadini del territorio di Monfalcone che più frequentemente si sentono, possibilmente esposti nel vernacolo ivi usato, salvo qualche parola cambiata a motivo di decenza, pubblicati anonimi alle pp. 53 e 54 del «Calendario per l'anno bisestile 1852» dell I.R. Società Agraria di Gorizia.
Mi sembra qui importante, dato l'interesse della scoperta, riportare inoltre per intero l'articolo che Silvio Domini ha dedicato al rinvenimento di tre poesie inedite del Brumati che riportiamo in fondo a questo saggio. Un articolo che contiene inoltre numerose ed importanti considerazioni riguardo al “bisiàc” ottocentesco:
"Catalogando l’archivio dei notai Cosolo quando sono arrivato agli atti del 1830, in mezzo ad un fascicolo di contratti e testamenti, legato con un nastrino verde, mi è saltato fuori un fascicoletto di tre sole pagine, legato sul dorso con un cordoncino bicolore. Alla vista di tre composizioni poetiche in dialetto scritte con l’originale calligrafia di Leonardo Brumati, la mia sorpresa è stata enorme. In calce al primo foglio, con altra scrittura minuta, la seguente scritta: “Manoscritti di Leonardo Brumati del 1837 e da me posseduti - Giuseppe Cosolo”.
Confesso di essermi emozionato, in quanto questa scoperta sposta l’inizio della letteratura bisiaca di molto indietro: il primo verseggiatore in bisiaco che finora si conosceva era il foglianino, Pietro Cauzer, che nel 1882 compose una serie di quartine, che lasciano molto a desiderare metricamente e di scarso valore letterario, per la “Sagra dei discolzi”.
La prima composizione del Brumati è un sonetto, scritto per le nozze di Giuseppe Cosolo con Elisabetta Lucia Maria Vio, avvenute nel 1789. Gli endecasillabi hanno rima AC BD nelle due quartine ed AC nelle due terzine: la metrica è perfetta e il bisiaco è quello usato a cavallo tra Sette e Ottocento.
Devo far notare che lo stesso anno dello sposalizio del Cosolo, il Brumati venne consacrato sacerdote: così si spiega questa poesia nata dalla loro amicizia per essere stati quasi coetanei.
La seconda poesia, intitolata “Morosi”, è composta da quattro quartine di perfetti ottonari con rima AD BC; in essa si rivela tutta la verve dell’autore, arguzia che già si conosceva nella citata “Ode anacreontica”.
La composizione "Morosi" non è databile con precisione, comunque sta nell’intervallo tra il 1798 e il 1837.
La terza composizione, intitolata umoristicamente “Mussa vernacola” (quel “Mussa” è una scherzosa trasformazione di “Musa”) è ancora un sonetto non caudato: le due quartine sono rimate AC BD e le due terzine AB, con C della prima e A della seconda che amalgnao i sei endecasillabi. L’argomento è serio: l’Autore si sfoga con i ricchi possidenti che avevano tentato, contro il suo parere di esperto e con nessun successo, la coltivazione del riso cinese o a secco, rovinando povera gente di San Canziano e di Staranzano e portando le zone malsane a ridosso dei paesi. Questa poesia è stata scritta senz’altro nel 1837. È pensabile che l’anziano notaio proprio nel 1837 abbia chiesto al Brumati di scrivergli i testi delle tre composizioni poetiche: la prima lo riguardava direttamente, le altre due forse gli piacevano.
Non sapremo forse mai quante e quali siano state le poesie del Brumati: io penso molte.
Ci sono bellissimi vocaboli come “felize”, “finamente”, “zoventù”, “corazo”, “solache”, “noma”, “cunsilgi”, “feva”, ecc. che ci confermano la continuità nei secoli di termini che sono arrivati fino a noi e che vengono ancora usati da quelli che parlano bisiaco. Mi fermo ancora un momento soltanto sulle voci verbali “diseuo”, “andeuo” e “desfauo”, dove la “u” sta al posto della “v”, come si usava negli scritti veneti anche di molti secoli passati; queste voci, nell’uso parlato, avevano perso molto tempo prima la vocale finale, diventando “andéu” e “diséu”, uso che perdurò fino alla fine del secolo scorso e anche oltre, per trasformarsi col tempo, anche nell’uso scritto, in “andevo” e “disevo”. E si potrebbe continuare, perché le tre poesie offrono molti spunti sull’evoluzione del nostro dialetto”.
*
Dopo aver ricordato le parole di Domini, a cui tutti noi dobbiamo moltissimo, possiamo così adesso tentare di rispondere alla seconda domanda: di che tipo di linguaggio stiamo parlando quando parliamo del bisiàc e, soprattutto, come si è diffusa una parlata di tipo fondamentalmente veneto in territori lontani da Treviso o Venezia, in cui sarebbe stato più logico incontrare - piuttosto - lo sloveno o il friulano?
Oggi certamente i comuni del monfalconese non si sentono più parte in alcun modo di quello che viene chiamato “Friuli Storico” (i cui confini coincidono per i bisiachi con quei luoghi, oltre l’Isonzo, in cui comunemente si parla il friulano) ma piuttosto di quell’area giuliana, accomunata da linguaggi di tipo veneto, composta da gradesi, triestini e istriani. Se pensiamo al passato di queste terre, però, gli ultimi studi riguardanti la storia linguistica del territorio di Monfalcone, oggi comunemente chiamato ‘Bisiacarìa’, ci fanno pensare sempre di più ad una zona ‘mista’ e meno omogenea di quanto non ci appaia oggi. Una zona in cui nei primi secoli dello scorso millennio, a seconda delle famiglie, si poteva parlare un dialetto di tipo sloveno o ladino (molto affine al tergestino e al muglisano), e in cui una buona parte della popolazione, almeno quella più dedita agli scambi o ai commerci, fosse in grado all'occorrenza, ma forse anche continuativamente, di impiegare il veneto del tempo. Già nei documenti più antichi del monfalconese difatti, come ha osservato lo studioso Maurizio Puntin, capita spessissimo d’imbattersi nella forma friulana e veneta di una medesima parola come se ci trovassimo in un’ambiente in cui si potevano usare con tutta tranquillità l’una o l’altra forma: cosa, tra l’altro, comunissima nel bisiàc dove possiamo trovare, ancor oggi, sedon, sculier o guciar, brosema o zelugna.
Si è parlato a lungo dunque, da parte di diversi studiosi come il Pellis, per spiegare il fenomeno della presenza di una parlata come quella bisiaca, in queste zone, di una relativamente recente ‘venetizzazione di un fondo ladino’; ma forse a questo punto, pur tenendo in parte come buone queste teorie, diventa necessario sfuggire alla genericità di queste affermazioni aggiungendo altri elementi. Oggi dunque possiamo finalmente allargare il discorso parlando, da Aquileia fino in Istria, di un contatto, certamente molto più antico, tra diversi linguaggi che si sono trovati a convivere in questi luoghi, in alcuni casi, già nei primi secoli dello scorso millennio quando, del resto, le differenze non erano così accentuate come lo possono essere oggi. Basti pensare, solo per fare un esempio, ai celebri processi di “Lio Mazor”, redatti in un veneto arcaico in cui alcuni studiosi hanno creduto, addirittura, di riconoscere elementi friulaneggianti. Evidentemente l’influenza del latino volgare era all’epoca così forte da poter far assomigliare ancora, almeno in alcuni tratti, il veneto ed il friulano più di quanto oggi non accada.
In seguito, l'arrivo graduale ma comunque imponente nel monfalconese di famiglie provenienti nella maggior parte dal Veneto dalla fine del 1400 (dopo le devastazioni arrecate dalle scorrerie delle armate turche) comportò certamente una ulteriore progressiva venetizzazione della parlata mantenendo però, al suo interno, numerosi elementi riconducibili al ladino, e forse anche al veneto di tipo più arcaico, periferico, che qui probabilmente già si conosceva. Per quanto riguarda il dialetto sloveno invece, di certo troppo difficile per i nuovi immigrati, o già in fase declinante, esso andò rapidamente perdendosi quasi del tutto, come si diceva, sopravvivendo solo in alcuni termini, tanto che la quasi totalità delle famiglie di certa origine slovena nella Bisiacarìa, già da secoli, hanno perso del tutto la memoria della loro parlata. Questa parlata sopravvive ed è impiegata quotidianamente (anche se non sappiamo se proprio nella sua forma originaria) ormai soltanto da alcune famiglie dell'area pedecarsica monfalconese mentre è ancora invece molto viva in quasi tutti i paesi del Carso.
Il risultato finale, secondo queste nuove teorie, fu quindi che, nell'arco di un centinaio d'anni, le famiglie che ancora parlavano ladino o il dialetto sloveno si adeguarono alla parlata dei nuovi arrivati arricchendola con molti termini particolarissimi che, misteriosamente, furono addottati e fatti propri anche da chi non era originario di queste zone. Come sembrano mostrarci soprattutto i documenti legati alla toponomastica locale, ma anche vari atti notarili, a partire dalla metà del 1500 il ladino e lo sloveno, di fatto scompaiono quasi del tutto da queste zone per far posto ad un linguaggio di tipo fondamentalmente veneto.
Da allora nei paesi del monfalconese tutte, se non tutte le persone che si sono trasferite dal Friuli in questa zona prima dell’apertura dei Cantieri Navali agli inizi del secolo scorso, tendevano così ad abbandonare la loro parlata natìa in favore del linguaggio impiegato dalla maggioranza della popolazione locale, cioè il bisiàc. Queste persone che si sono qui trasferite nel corso dei secoli dunque, anche se con cognomi di chiara origine friulana, non possono essere dunque oggi comprese ovviamente tra i parlanti la lingua friulana come dimostrano diverse famiglie che si sono trasferite tra Seicento e Ottocento che sono diventate a tutti gli effetti bisiache come, ad esempio, i Braida, i Fabris, i Braulin che non serbano più alcuna memoria della loro lingua d’origine. Nessuna famiglia ha del resto nemmeno conservato, come è stato invece a Muggia e Trieste fino almeno nell’Ottocento, nemmeno quello che è stato felicemente battezzato come “ladino oltreisontino” adottando tutte, in seguito ad un mutato assetto sociale del territorio, una parlata di tipo veneto. Facciamo presente, ad esempio, che alla famiglia Fulizio e Miniussi, di chiara e antica onomastica ladina oltreisontina e tra le prime documentate nel nostro territorio, appartenevano anche due dei compilatori del Vocabolario Fraseologico del dialetto bisiàc. Per cui non vi è stata continuità, com’è forse accaduto ( ma comunque solo in minimissima parte invece per la comunità slovena ), tra il ladino oltreisontino ed il friulano che viene parlato in ambito famigliare dalle famiglie di friulani trasferitisi in seguito a quella data nel nostro territorio. Gli unici che hanno dunque ereditato e conservato alcune tracce di quella misteriosa parlata sono, invece, proprio le famiglie che parlano bisiàc, non quelle che oggi in casa oggi parlano friulano, che è a tutti gli effetti, in questi luoghi, una lingua di recente importazione.
Alla fine del 2005, ad esempio, compiendo un grossolano errore, due comuni del territorio, come Monfalcone e Sagrado, sono stati inseriti in una tabella intitolata “I comuni friulani” all’interno dell’Enciclopedia tematica del Friuli Venezia Giulia, definendoli come appartenenti “all’ambito territoriale della lingua friulana”. Sarebbe invece più esatto dire che a Sagrado si parla il dialetto bisiàc mentre soltanto nella frazione di Sdraussina (Poggio Terza Armata) si parla il friulano assieme allo sloveno e a San Martino del Carso il dialetto “Samartinàr”. Per cui il friulano, in tutto il Comune di Sagrado, è parlato soltanto da circa la metà degli abitanti di una piccola frazione. Per quel che riguarda Monfalcone, invece, il friulano viene parlato (soltanto ed esclusivamente in ambito famigliare) soprattutto all’interno di quelle famiglie che si sono trasferite per lavoro nel corso del Novecento, mentre gli immigrati friulani di più antica data, come abbiamo detto dianzi, hanno praticamente tutti nel corso degli ultimi secoli adottato come lingua principale il bisiàc. Per cui se vogliamo parlare di una comunità storicamente radicata e di un uso pubblico e condiviso di questa lingua, gli unici due paesi dei comuni del monfalconese dove si è sempre e continuativamente parlato il friulano sono dunque Poggio Terza Armata ed Isola Morosini, due paesi che però per l’appunto non fanno parte di quella che noi chiamiamo ‘Bisiacarìa’, cioè i paesi in cui si parla il bisiàc, in cui invece rientra a pieno titolo Monfalcone. Una città dove, ad esempio, due tra gli avvenimenti più importanti ed attesi dalla popolazione, come il celebre discorso di ‘Sior Anzoleto postier’, in occasione del Carnevale, e la pubblicazione della rivista «La Cantada» che viene venduta in migliaia di copie, sono accomunati dal fatto di impiegare rigorosamente il bisiàc e non certamente la lingua friulana.
Ricordiamo inoltre a proposito le parole del grande linguista Graziadio Isaia Ascoli (che, essendo Goriziano, doveva di certo conoscere bene la nostra zona) scritte nel 1863: “Trieste, Rovereto, Trento, Monfalcone, Pola, Capodistria, parlano la favella di Vicenza, di Verona, di Treviso; Gorizia, Gradisca, Cormòns, quella d’Udine e di Palmanova”. Ma già nel 1853 lo studioso sloveno Kociancic aveva pubblicato un lungo articolo « Zgodovinske drobtinice pò Goriskem nabrane v letu 1853» (Briciole storiche raccolte nel Goriziano nel 1853) dove aveva enumerato tutti i luoghi in cui vivono i Friulani (« laski, vlaski ali furlanski prebivalci ») “con eccezione per il territorio tra la sponda sinistra dell'Isonzo ed il Carso fino a Gradisca, dove vivono gli Italiani, circa 12.000 anime, che si chiamavano « Bisiacchi ». Sempre nello stesso anno, scrivendo della provenienza di nomi di luoghi in Friuli, spiega in un altro articolo le origini di una certa lingua « bisiacha » nel territorio da Duino a Gradisca, tra il Carso e l'Isonzo aggiungendo che le popolazioni dei territori appartenuti una volta alla Repubblica Veneziana erano nell'anno 1848 seguaci della « cosa italiana » e contrari all'Austria, mentre « tutti gli altri nostri Friulani » erano fedeli all'impero austriaco.
Anche il Prof. Sebastiano Scaramuzza nel suo Le Vicende e le Conclusioni del mio studio giovanile della Parlata Gradese, stampato a Udine nel 1894, scriveva che “nell'autunno della mia quarta ginnasiale (1845 circa) a qual punto mi trovavo io co' miei studi gradensi?.. Ecco : Io aveva già conosciuto parecchi dialetti Veneti : il dialetto di Pirano, d'Isola d'Istria, di Capo d'Istria, il dialetto del Territorio di Monfalcone, il dialetto di Venezia, le parlate dei Chioggiotti, dei Caorlotti, dei Buranelli e di altre popolazioni venete”.
Per continuare, nel fondamentale Atlante storico-linguistico-etnografico friulano inoltre, si dice che le "principali località <> sono: Sagrado, Fogliano, San Pier d'Isonzo, Cassegliano, San Zanùt, Turriaco, Pieris, San Canzian d'Isonzo, Polazzo, Selz, Vermegliano, Ronchi dei Legionari, Begliano, Staranzano, Aris, Dobbia e Monfalcone". Dobbiamo inoltre notare che nello stesso testo, in schede riguardanti altre località della nostra Regione, sono evidenziate anche minime, mininimissime tracce di un uso più o meno recente del friulano. Nel caso del territorio di Monfalcone, invece, si parla solo ed esclusivamente del dialetto "bisiacco". In un'altro importante testo dell'insigne studioso Giovanni Frau, I dialetti del Friuli (edito tra l’altro proprio dalla Filologica Friulana), l'autore afferma che il "bisiacco" è una varietà dialettale fondamentalmente veneta", parlata nei paesi sopracitati, mentre la Bisiacarìa è definita come ‘il territorio in cui vivono i Bisiac(c)hi’. E anche qui non si fa alcun accenno ad un uso, seppur minimo, del friulano (e, sbagliando per mancata conoscenza certamente, nemmeno dello sloveno) nel territorio di Monfalcone. Riassumendo, allora, gli unici paesi del Territorio di Monfalcone dove è accertata storicamente la presenza e l’uso del friulano sono le frazioni di Poggio Terza Armata (in parte) ed Isola Morosini mentre è da escludere, nel modo più assoluto, la città di Monfalcone a meno che non si voglia dar spazio ad interessate riscritture della storia linguistica del territorio prive di ogni scientificità e subito rigettate, del resto, dai più autorevoli studiosi della regione.
Ciò che distingue il bisiàc da tutte le altre parlate della nostra regione è dunque dato soprattutto dalla sopravvivenza, al suo interno, delle tracce di questi diversi antichi linguaggi a cui dobbiamo aggiungere, in tempi relativamente più moderni, anche diversi termini di origine francese e, soprattutto, tedesca. Spesso così, in maniera del tutto inconsapevole, gli abitanti del monfalconese hanno quindi continuato ad impiegare fino ai nostri giorni termini altrove scomparsi, a volte, da molti secoli.
Come abbiamo detto, al ladino oltreisontino e al dialetto sloveno, parlate a cui Maurizio Puntin ha dedicato degli studi approfonditi, sempre più si sta diffondendo la convinzione che già in epoca medievale dovesse affiancarsi a queste parlate anche un terzo linguaggio. Un linguaggio che evidentemente doveva essere una sorta di lingua franca, derivata dal veneziano del tempo ed impiegata in tutta la fascia costiera, atta a permettere una migliore comprensione tra la popolazione locale e quanti - ed erano molti - arrivavano in queste zone anche da lontano, da Milano e oltre, per smerciare le proprie mercanzie. Monfalcone difatti, come testimoniano molti documenti, era città di ‘Muda’, di dogana, e tra le sue mura si svolgeva un importante mercato dove si vendevano prodotti locali ma anche merci più preziose. Questo spiegherebbe, meglio di un’ipotizzata, ma difficilmente dimostrabile, diretta discendenza di una parlata di tipo veneto dallo sfaldarsi del latino aquileiese, la presenza in alcune parlate della nostra regione di diversi termini veneti dai tratti più arcaici. A testimonianza di ciò le parlate tergestine e muglisane conservavano al loro interno numerosi termini veneti di tipo più arcaico come òglo ad esempio, testimoniato anche nell’antico chioggiotto, al posto del friulano vòli. È evidente che in questo caso non possono trattarsi di influenze del triestino moderno che, come sappiamo, è privo o quasi di termini riconducibili alle parlate venete più arcaiche, ricalcando piuttosto fedelmente quella veneziana settecentesca.
Per quanto riguarda il monfalconese, a proposito, è inoltre documentata la presenza di guarnigioni venete nel Territorio a partire dal 1289 (‘ma frequenti incursioni armate attraverso i canali lagunari risalgono almeno al secolo precedente’, ricorda Domini) con gli inevitabili continui contatti con quel mondo durante i quattro secoli di dominazione veneziana. Inoltre nel tempo pescatori, cacciatori (e, anche se molto più tardi, i ‘marineri’ che raccoglievano la preziosa sabbia dell’Isonzo per le costruzioni), avevano probabilmente già allora contatti con la comunità di Grado ed altri pescatori dell’Adriatico di lingua veneta, contatti che hanno lasciato la loro impronta soprattutto nel lessico marinaresco, nei nomi della fauna ittica, degli uccelli e delle piante di palude come, solo per fare un esempio tra i tanti possibili, la ‘brula’, la canna palustre.
Quel linguaggio che sarebbe stato in seguito definito come bisiàc ha iniziato ad imporsi comunque con forza, sembrerebbe, soprattutto a partire dall'inizio del 1500, cioè l’epoca in cui lo sloveno e il ladino oltreisontino scompaiono dalla Bisiacaria come lingua corrente. Il bisiàc, com’è stato detto, dimostra un tipico aspetto di veneto “coloniale”, anche se con aspetti piuttosto diversi rispetto a quello che si è imposto a Trieste e a Muggia, conservando al suo interno diversi termini di tipo più arcaico, legati all’area veneta e istro-veneta, come ancói, comódo, crïatura, spiandòr, gesia, cuntìnevo, i rari vóido, “vuoto”, e zerendìgul (da “cerendegolo”, una specie di fionda), spesso già citati dal Boerio come parole scomparse da tempo nel veneziano del Settecento e testimoniati soltanto nei documenti più antichi. Anche nelle interrogazioni il bisiàc (almeno quello parlato fino ancora ad una trentina d’anni fa) si distingue notevolmente dal triestino, per cui troviamo ad esempio, come anche nel tergestino, “onde vasto (vato)?”, “dove vai?” al posto di “’ndove te va?”, “asto (àto) catà?”, “hai trovato?”, al posto di “te ga trovado?”, “comódo èsto (èto) grando?”, “quanto sei alto?”, al posto di “quanto te son grando?” “parvìa de ché fali baldoria?” “perché stanno festeggiando?”, ecc.
Ovviamente sono di straordinario interesse anche tutti quei termini che troviamo documentati anche nel tergestino come nóu, tóu, ulìu, catìu, vìu, s’ciau, seu, trau, vec’, che evidentemente rimandano con forza ad un fino ad oggi importante e dimenticato sostrato, solo per citarne alcuni accanto ad altri derivanti dal dialetto sloveno antico come seima per indicare i fuochi epifanici. Queste scoperte sembrano dunque delineare un inedito quadro di antiche convivenze tra diversi linguaggi per cui come abbiamo sottolineato prima, quasi certamente, da Aquileia all’Istria, il confronto tra mondo ladino, veneto e slavo è stato molto più forte e forse precoce di quanto si sia finora immaginato. Probabilmente già in epoca medievale, da Muggia alla Bisiacarìa, il friulano ed il veneto si sono trovati così a convivere dando vita a linguaggi che oggi difficilmente si possono definire come appartenenti interamente all’uno o all’altro ambito linguistico; linguaggi come il muglisano ed il tergestino che sono parlate di tipo friulano fortemente ed anticamente influenzate dal veneto o come quello bisiaco dove, altrettanto forte nei secoli, accanto ad antiche espressioni venete, è stata la segreta, finora non riconosciuta influenza di una perduta parlata ladina.
Poesie di Leonardo Brumati
Sonet
A Lùzia e Bepi Cosul
Sposi
Anca ti Lùzia te xe maridada,
felize mi te auguro la vita
finamente ti te à coronada
quela speranza che la era zita
cignuda ta ’l to cor e ben serada.
Dès bogna che te pense a far fioreti
parché la zoventù te à donada
a Bepi che al speta bei fioleti
par far faméa che la vaghe vanti drita
su quela strada segnada del Signor.
E ti Bepi corazo, ta la vita
xe anca spini e no solache fior.
Ma tut passa in sto mondo, passa via,
resta noma che al grando, vero amor.
Sonetto. Anche tu, Lucia, ti sei maritata, / felice io ti auguro la vita / finalmente hai coronata / quella speranza che silenziosa // tenevi nel cuore ben custodita./ Adesso bisogna che tu pensi a far fioretti / poiché la gioventù hai donato / a Giuseppe che aspetta bei figlioli // per metter su famiglia che vada avanti diritta / lungo quella strada segnata dal Signore. / E tu Giuseppe coraggio, nella vita // ci sono anche le spine e non soltanto fiori. / Ma tutto passa in questo mondo, passa via, / rimane soltanto il grande, vero amore.
Morosi
L’altro zorno al mus se ferma
e no zova la vis’ceta
mi desmonto e vardo a dreta
e de bot ò la conferma
drio la macia la cavala
de sior Pinperle passona
chieta chieta, bona bona,
e al me mus, lu no no fala,
al te zira svelt a dreta
ma sul oro li xe un fos
e rucando a più no pos
al rebalta la careta.
Quando che ghe ciapa i sete
i morosi i fa conpagno
no i te scolta gnanca al lagno
e i cunsilgi de mi prete.
Fidanzati. L'altro giorno l'asino si ferma / e a nulla serve il frustino / io scendo e, guardando alla mia destra, / capisco subito il perché: // oltre gli alberi la cavalla / del signor Pinperle bruca l'erba / quieta quieta, buona buona / e infallibile il mio asino // gira veloce a destra / ma, sul margine, lì c'è un fosso / e tirando a più non posso / rovescia il carretto. // Così quando sragionano / i fidanzati si comportano allo stesso modo: / non danno più ascolto né alle lagnanze / né ai consigli di me prete.
Mussa Vernacola
Un tenp un bon udor la bavisela
sufiava su de la marina cara
ma dès cu’i risi, questa la é bela,
vien su una spussa che l’é propio rara.
No i à vulù scoltarme co diseuo
de no piantar quei risi ta ’l paludo
e i siori quando che mi lazò andeuo
i me feva scanpar como un por gudo
par guantarme de bot in ta la nassa.
Ma mi cun arte desfauo la madassa
scrivendoghe a Gurizia le reson
che no le à valù, parché al paron
l’é senpre lu che al vinze e intant al por
al à magnà le vache e al so lavor.
Mussa vernacola. Un tempo un buon odore la brezza leggera / portava su dalla marina cara / ma ora con le risaie, questa è bella, / arriva una puzza davvero rara. // Non mi hanno voluto ascoltare quando ripetevo / di non coltivare il riso nella palude / e i ricchi, quando mi recavo laggiù, / mi facevano scappare come un povero pesce // per cercare di farmi poi finire nella rete. / Ma io con arte disfacevo la matassa / scrivendo a Gorizia le ragioni // che però non sono servite, perché il padrone / alla fine è sempre lui a vincere e intanto il povero / ha perduto le mucche ed il suo lavoro.
martedì 20 gennaio 2009
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